Antonio Mangarini fu uno dei capi della resistenza del Popolo Veneziano all'invasione Napoleonica. Una rivolta spontanea, imprevista e improvvisa, del Popolo che non accettó nè la sottomissione data a Napoleone dal Maggior Consiglio imbelle nè la Municipalitá provvisoria instaurata dai filofrancesi. Una rivolta che la Municipalitá provvisoria diretta da Pietro Gradenigo represse nel sangue usando persino l'artiglieria sui dimostranti al Ponte di Rialto.
Seguí una operazione di polizia politica che portó tra l'altro all'arresto e alla fucilazione di Antonio Mangarini.
I pochi dati su questo eroe, sopravvissuti a censure antiche e moderne, sono elencati da Federico Fontanella nella sua prefazione al racconto storico che la figura di Antonio Mangarini gli ha ispirato.
Nel testo originale di Federico Fontanella il ragazzo era indicato con il cognome di Margarini, a causa di un errore di lettura o trascrizione della fonte. Successivi accertamenti hanno appurato che il nome era invece Mangarini. Ho ritenuto segno di rispetto per il Martire restituirgli il vero nome anche nell'elaborato poetico di Federico.
Umberto Sartori
I soldati della Municipalitá Provvisoria dal ponte di Rialto sparano a mitraglia sul Popolo veneziano in rivolta (courtesy of cronologia.leonardo.it).
Antonio Mangarini racconto storico di Federico Fontanella
Prefazione:
Si sa che era stato veneziano dello Stato da Mar, in quanto nativo di Zara, alla pari del Foscolo, che egualmente lo era, in quanto nativo di Zante.
Si sa che era stato ufficiale della Marina veneziana, e che nel 1797 si trovava nel suo venticinquesimo anno di vita, e che la sera del 12 maggio 1797 egli aveva e capeggiato e guidato una sollevazione popolare, la quale avrebbe voluto contrapporsi e scalzare la Municipalitá Provvisioria, che aveva sostituito il Governo della Serenissima, al fine di riprestinare quest'ultimo e di unire le forze rimaste per far fronte all'Armata del Buonaparte, in difesa della Patria.
Questa sollevazione si scatenó nelle vicinanze del Ponte di Rialto, e le forze della Municipalitá ebbero la meglio e poterono domarla, grazie anche al fatto che vennero impiegati perfino i cannoni contro i rivoltosi, armati soltanto di sciabole e moschetti.
Sappiamo che il Mangarini riuscí al momento a sottrarsi alla cattura, ma che venne individuato e preso qualche giorno dopo.
Sottoposto a processo, venne condannato alla pena capitale mediante fucilazione, che venne eseguita la sera del 23 giugno 1797, alle ore 21, nel Campo di san Francesco della Vigna.
Null'altro, fino ad ora, dalla documentazione pervenuta e rimasta che lo riguarda, si sa di lui.
In particolare non sappiamo perchè l'esecuzione abbia avuto luogo proprio in quel Campo, immerso in una atmosfera severa e malinconica, cosí remoto e periferico, rispetto all'area Marciana, e non sappiamo neppure dove il suo corpo sia stato sepolto.
Un'altra cosa si sa, e questa molto bene, in quanto é assai recente: un gruppo di encomiabili veneziani avrebbe voluto apporre una lapide nel Campo di san Francesco, in ricordo dell'esecuzione del Mangarini, lapide contenente una frase molto breve, succinta ed asettica, tale da non costituire provocazione verso alcuna corrente di pensiero.
La lapide era giá pronta, ma non venne mai collocatain quel Campo, poichè vi si oppose una locale Autoritá, motivando il diniego con il fatto che quella lapide non sarebbe stata di interesse per alcuno.
Ho ricordato il particolare del diniego alla collocazione della lapide, per far comprendere come i giacobini di oggi non siano gran ché differenti dai giacobini di allora e che quelli odierni, dato che le circostanze attuali non consentono loro l'uso della pena capitale, sanno tuttavia ben avvalersi della pesante mortificazione del pensiero scomodo.
é una caratteristica costante dei giacobini, quella di contrapporre non argomento ad argomento, ma di contrapporre offese, o se non offese, quanto meno valutazioni personali negative verso gli argomenti addotti, o meglio, verso le persone che li sostengono.
A comprova della altezzositá superbiosa derivante dalla consapevolezza di essere, ora come allora, gli unici legittimi depositari della Veritá laica.
Infatti, secondo il giudizio di quella Autoritá, il gruppo di persone che avrebbero voluto affiggere la lapide, ammesso e non concesso che fossero gli unici interessati, sarebbero stati semplicemente dei "signori nessuno".
Tornando a noi, debbo dire che la figura del Mangarini mi colpí in modo particolare, perchè ebbe a fornirmi un altro nome da poter ricordare, in aggiunta ad altri pochi, in rappresentanza di quei molti veneziani anonimi che non vollero far supina e inerte acquiescenza al tradimento e all'ignavia di alcuni.
Il libretto del Prof. Borsetto citato in calce, mi ha fornito l'ispirazione per stendere il presente racconto, nel cui testo sono richiamati gli scarni dati storici.
Sono state aggiunte alcune particolaritá, che non penso snaturino la realtá dei fatti, quale l'esistenza di una madre ancora in vita al momento della morte del figlio e dimorante a Zara, cosa molto verosimile, data la giovane etá del martire, e quale il fatto che il Mangarini abbia voluto scrivere una lettera alla madre stessa, prima di venire ucciso. Cose che normalmente avvengono prima delle esecuzioni capitali in tutti i tempi e tutti i luoghi.
Totale frutto di fantasia sono invece le figure di Frate Benedetto da Venezia e di Frate Vittorio da Montereale Valcellina, ques'ultima d'altronde appena accennata.
Il particolare della partecipazione del Goethe alla cerimonia solenne avvenuta in Santa Giustina a Venezia il giorno 7 ottobre 1786 é veramente accaduto, come risulta da alcune indimenticabili pagine dello Italianiche Reise.
E' invece di fantasia il colloquio tra lo scrittore tedesco ed il padre del Mangarini.
Desidero mettere in chiaro un particolare relativo a Napoleone.
Si potrebbe arguire che io covi un sentimento di odio nei confronti di questo personaggio storico.
Ovviamente la cosa non interesserebbe e non preoccuperebbe per nulla la moltitudine di ammiratori del famigerato Córso, data la infinita modestia e pochezza della mia persona; peró, se permettete, interessa a me.
Voglio allora precisare che io non odio Napoleone, cosí come non odio e non voglio odiare alcuna persona al mondo.
Aggiungeró come io sinceramente mi rallegri unitamente al Manzoni e condivida con lui la lieta constatazione del fatto che Napoleone sul letto di morte abbia chinato la fronte ed aperto il suo cuore al Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.
Detto e confermato questo, il mio personale giudizio sul comportamento tenuto dal Buonaparte nei confronti di Venezia é particolarmente severo e pesante, e lo voglio schiettamente ribadito di fronte alle persone che, affascinate da alcuni lati della personalitá del Córso, amerebbero sorvolare sulle di lui malefatte, non poche, nè trascurabili.
Penso che se a Cesare dobbiamo dare quel che é di Cesare, anche a Napoleone dobbiamo dare quello che é di Napoleone.
Un giorno un mio caro amico, veneziano e fervente cattolico, ebbe a meravigliarsi del fatto che ce l'avessi cosí garba, con la figura del Bonaparte, cosa che contrastava evidentemente con la communis opinio, che egli aveva supinamente ricevuto dai libri di storia studiati in gioventú.
Gli risposi che io mi meravigliavo della sua meraviglia, e ció, per due motivi, dato che lui era veneziano, amante della sua cittá, e dato che era anche un fervente cattolico.
Infatti, ove non avessi avuto altri motivi di contrarietá (e ce ne sono a centinaia), sarebbero bastati questi due:
1 - l'aver il Bonaparte proditoriamente annientato la mia Patria, cancellandola dalla storia politica;
2 - l'aver egli trascinato colla forza in Francia, e l'aver ivi tenuti prigionieri per anni ed anni, ben due Papi: Pio VI prima, e Pio VII dopo, sacrilegio che nessuno al mondo osó mai commettere, neppure Hitler, che su simili rapimenti ci aveva fatto anche un pensierino sopra, finendo peró con l'accantonarlo.
Un altro caro amico, nel non condividere il mio atteggiamento nei confronti di Napoleone, preferiva essere del parere del Manzoni: "ai posteri l'ardua sentenza".
Se tale epocazione, ovverossia sospensione del giudizio, é accettabile dal Manzoni per la stretta contemporaneitá dell'Autore a Napoleone e, adenti stretti, anche da don Lisander, non la si puó peró omologare al nostro tempo, fra di noi che, a a oltre due secoli di distanza dai fatti, siamo a buon diritto fra i posteri indicati dal Manzoni, quindi in grado e da lui implicitamente obbligati a emettere quell'ardua sentenza.
Le opinioni di questi due amici dimostrano come la storiografia ufficiale sia scritta dai vincitori e per secoli contrasti i vinti quando questi tentano, pur sommessamente, di correggerla con ricerche d'archivio e saggi ragionati, trovando appoggio alle falsificazioni anche fra quei vinti che hanno soggiaciuto all'ideologia dominante.
Ció precisato, eccovi il raccontino, amici lettori, che se potrá piacervi, ringraziate il retto giudizio e l'eroica volontá del Mangarini; se non vi piacerá, prendetevela pure con me, che le spalle le ho ben salde e robuste, per sopportare le vostre critiche.
Sempre ricordando (per dimostrarvi che alla fin fine, saprei essere vero amico di Napoleone), che quanto vale per ogni defunto, vale ovviamente pure per lui, e cioé che nessuno, tra i morti, ha bisogno dei nostri giudizi, mentre tutti avrebbero bisogno delle nostre preghiere.
Lettera del condannato Antonio Mangarini alla madre
Da Venezia, sera del 23 giugno 1797
Mia carissima madre,
ho l'amarezza di dovervi scrivere per l'ultima volta nella mia vita, poichè questa sera stessa, poco dopo il tramonto, io verró fucilato dalle truppe della Municipalitá Provvisoria, che governa Venezia, dopo la caduta della gloriosa Serenissima Repubblica.
Vi spiegheró, piú concisamente che potró, come si sia arrivati a questo estremo.
Vi ho detto che questa Municipalitá governa Venezia?
Avrei dovuto dire che essa soggioga illegittimamente la nostra Cittá, poichè questo governo si é autocostituito, si é autonominato da se stesso.
Infatti non é stato nominato da alcuno, se non dai suoi stessi componenti, e si proclama falsamente democratico, mentre il Popolo veneziano non lo ha nè voluto, nè votato, e d'altronde non vuole saperne di altri governi, al posto di quello Serenissimo.
Una Municipalitá cosí, sorta all'improvviso, in sostituzione del governo della Repubblica di San Marco, e giá dotata nei fatti di tutti i poteri del precedente, non puó essere sorta dal nulla in pochi minuti, la sera del 12 maggio, ma deve essere stata voluta e preparata nascostamente da lungo tempo da parte dei cospiratori giacobini.
Questo governo fino ad ora non é stato riconosciuto da alcun altro Stato europeo.
E, amara e ridicola constatazione, neppure dagli stessi francesi!
Giustamente, del resto, se ci pensate bene, poichè nemmeno chi organizza, e richiede, e paga l'altrui tradimento, riuscirá a fidarsi del traditore, ma sempre in cuor suo, pur valèndosene, lo coprirá di disprezzo.
Ahimé , madre mia, vorrei poter lasciare questi pensieri litigiosi e terreni, e concentrarmi tutto sulla mia morte imminente.
Sperando cosí di poter raggiungere il mio amatissimo padre e di unirmi a lui per sempre, e poter pregare piú efficacemente per voi, che rimanete sola sulla terra.
Quante volte mi sembrava di essere piú intimamente unito a Voi, quando, passando davanti alla chiesa di Santa Maria del Giglio, qui a Venezia, scorgevo scolpita in uno degli specchi del basamento della facciata, la pianta di Zara, la mia cittá nativa!
Come mi rivedevo fanciullo quando percorrevo quelle strade, accanto a voi, Madre mia, e mi nascondevo dietro un albero, per farvi stare un momento in apprensione, per godere dell'ansioso affetto col quale mi cercavate, e sorridervi poi contento, quando mi lasciavo far vedere di nuovo!
Mi accorgo di lasciaemi prendere la mano da cari ricordi e di procedere, nella descrizione di questi terribili eventi, in un modo molto disordinato e frammentario.
Scusatemi, madre, ma spero comprenderete facilmente come nella situazione attuale, io riesca a controllare il mio intelletto solo fino a un certo punto.
Forse Voi avrete giá avuto notizia dei tristissimi avvenimenti che si sono abbattuti sulla nostra Patria, da qualche mese a questa parte.
Una sorta di inesorabile bandito córso, di nome Napoleone Buonaparte, che é a capo dell'esercito francese, ha invaso giá da tempo le nostre terre spadroneggiando, saccheggiandole e depredandole col pretesto di dover inseguire l'armata austriaca.
Egli ha attaccato la nostra Repubblica, malgrado si fosse proclamata neutrale nella guerra in atto tra la Francia e l'Austria, e ne ha, come vi dicevo, invaso gran parte del territorio, costringendo il Doge Manin ed i governanti legittimi della nostra Repubblica a continue vessazioni, a ininterrotti cedimenti, a dolorose umiliazioni, a onerosissimi pagamenti di denaro.
Ció fino alla sera dello scorso 12 maggio, giorno funestissimo per noi tutti, in cui il Corso si é sentito di dichiarare sciolto e decaduto quello Stato che da oltre un millenio dominava i mari, ben oltre l'Adriatico.
Ha fatto questo dopo avere con mille pretesti e con mille intimidazioni, condizionato i suoi provvedimenti, dopo aver insomma agito da padrone, da dittatore, da despota, da Attila redivivo, prima ancora di diventare effettivo e unico dominatore per davvero.
I Francesi, tramite i loro fedeli emissari, alcuni nobili e alcuni bottegaj, convinti adepti e fautori delle loro idee demoniache, hanno fatto mettere in piedi una Giunta Municipale, che si ispira e si associa ai Francesi nel proclamare falsamente gli ideali di democrazia, di libertá, di fraternitá di uguaglianza.
Ora a Venezia non c'é nulla di tutto questo, poichè in Venezia non vi é piú alcuna libertá, non vi é fraternitá che non sia massonica, non vi é uguaglianza fra gli invasori e i Veneziani, e meno che meno vi é la tanto decantata democrazia, poichè si tratta di un regime imposto esclusivamente con la forza delle armi e con la menzogna, dove non si trova nemmeno un lumicino di libertá, ma solo imperano i saccheggi, le depredazioni, le prepotenze, le angherie, le distruzioni, le arroganti e superbe tracotanze, e, sovrana di tutto, la morte.
Solo alcune nobildonne di facili costumi e altri personaggi del loro livello morale vanno a danzare spensieratamente e sacrilegamente attorno agli "alberi della libertá".
Intanto noi non siamo piú liberi di essere veneziani.
Ahi, madre mia, quale giorno funestissimo, quale giorno veramente infernale per tutti, fu quel 12 maggio, vero giorno dell'Ira divina, in cui esplose una tempesta mai vista prima d'ora, e tutte le nubi che gravavano sulla nostra Patria, cariche di una pioggia maligna e di una grandine devastatrice, si apersero finalmente per inondare Venezia con ogni satanica distruzione!
Giorno veramente nefasto e spaventoso, dove alla sera si ribaltó ogni piedestallo spirituale ed etico su cui posava la nostra Repubblica, e si osarono pronunciare parole di disprezzo, di esecrazione e di odio verso quelle stesse bandiere, verso quegli stessi ideali, che, da secoli e secoli, fino alla mattina di quello stesso terribile e maledetto giorno, erano tenuti in onore, ed erano motivo di gioia e di gloria!
La cittá era ed é sconvolta, il Popolo veneziano é depresso e disorientato, furente e bramoso di rivolta, attonito e avvilito, forse non vuole rendersi bene ancora conto di cosa sia successo, del disastro immane che é sopraggiunto sul suo destino.
Al punto che io mi sono domandato piú e piú volte, senza mai poter darmi una risposta adeguata e convincente: ma perchè quest'odio forsennato ed inesorabile da parte dei Francesi e del Buonaparte, contro la nostra Patria?
Perchè questo livore, questo accanimento, verso una Nazione, verso un Popolo, che ormai da quasi tre secoli non aveva mai mostrato malanimo alcuno verso la Nazione francese e non le aveva arrecato offesa alcuna?
Anche quando Venezia prese le armi contro la Francia, nel lontano 1509, lo fece perchè costretta a difendersi dalla Lega di Cambray, cui anche la Francia partecipava.
Perchè allora quest'odio, per cui il piccolo Napoleone (per natura, infatti, é press'a poco un mostriciattolo ) non soddisfatto di averla invasa, distrutta e privata della sua identitá, della sua autonomia, della sua libertá e della sua indipendenza, non solo sta saccheggiando e rapinando le sue opere d'arte, non solo sta distruggendo le sue chiese, perchè quelle evidentemente non puó portarsele via, ma addirittura cerca di cancellare per quanto puó, i segni, i simboli e il nome stesso della nostra antichissima civiltá, scalpellando gli antichi e marmorei Leoni di san Marco, ovunque essi fossero effigiati, dovunque essi fossero collocati, con un odio tanto folle, sistematico e ingiustificato, quanto furioso e satanico?
Al punto che vuole cancellare perfino il piú pallido ricordo di ció che era stata la gloriosa Repubblica, vietando espressamente di nominare il simbolo piú prezioso di essa, vale a dire vietando di pronunciare il grido fatidico che essa lanciava contro i suoi storici nemici, in particolare contro i Turchi, e cioé: "Viva san Marco!".
Cosicchè oggi assistiamo a questa assurditá, a questa beffa atroce, ridicola e impensabile, che farebbe da ridere, se non fosse invece da deplorare e da piangere e da considerare con sbigottimento e con orrore, per cui se un veneziano viene ascoltato nel mentre pronuncia queste parole di "Viva san Marco!", egli viene subito giustiziato sul posto!
Come giá accadde a due barcaioli, i quali, giungendo a Venezia da Fusina, su di un barchino leggero, il 13 maggio scorso, cioé il giorno dopo la fatale data, e nulla sapendo di quanto era accaduto in cittá, ed essendosi messi a gridare, nel rio de l'Anzolo Raffaele, a guisa di abituale saluto, le parole: "Viva san Marco!", vennero immediatamente presi a fucilate dalla sbirraglia giacobina della Municipalitá, che stazionava davanti al Palazzo Foscarini, nella Fondamenta, per cui i loro corpi caddero all'interno del barchino.
Esso, privato della guida, se ne andó da una parte e dall'altra, urtando le rive e le altre imbarcazioni ivi ormeggiate.
Ma dove si sono mai viste situazioni cosí spaventose, cosí abnormi e brutali?
Qui si vuole non solo soggiogare il corpo dell'avversario, ma distruggerne l'anima, modellarla secondo un proprio volere entrando nel sacrario piú augusto di un uomo, nella sua coscienza, forgiandone i sentimenti e gli ideali, vietando gli uni ed immettendone altri di opposti, cosa che perfino il Creatore non ardisce fare, poichè ha sempre rispettato la coscienza dell'individuo, anche quando essa fosse contraria e ostile alla sua volontá.
Cosa c'é, quale disegno infernale si nasconde sotto tutto questo?
Forse Venezia era troppo bella, troppo desiderabile?
Il vivere in essa era forse una delizia cosí squisita, un privilegio cosí impagabile, un dono cosí eccelso e cosí divino, che agli estranei e a tutti coloro che ne erano privi sembrasse un beneficio insopportabile, perfino a pensarlo, posto al confronto della loro miseria e della loro infelicitá, cosí da desiderarne l'annientamento e la distruzione?
Per cui, se di quella felicitá essi non potevano usufruire, nessun altro al mondo mai piú potesse goderla?
Ma quale forza nemica ed infernale potrebbe essere cosí invidiosa da desiderare cose cosí nefande, cosí ingiuste e cosí nefaste?
Non lo so.
Non ho piú risposte per queste angosciose e terribili domande.
Credo che dovrebbe essere ormai chiaro per tutti come primo scopo della loro rivoluzione sia quello di annientare la religione cattolica e la stessa idea della Divinitá.
So solo che ora comprendo bene come il pensiero sia il vero padre dell'azione, e come perció ognuno di noi dovrebbe vigilare attentamente su quanto pensa, perchè soltanto dal nostro pensare dipende il nostro agire.
E so pure che stiamo precipitando nella barbarie piú atroce e piú bestiale che si potesse mai immaginare.
Una barbarie che, fra l'altro mi sembrerebbe estranea alle tradizioni culturali della Nazione francese ed indegna di essa.
Io penso, Madre mia, che stiamo vivendo un'epoca in cui non solo il potere degli uni cerca di soppiantare il potere degli altri e di sostituirsi a esso, come era sempre avvenuto a questo mondo, ma qui ed ora, non si vuole questo soltanto: soprattutto si cerca di scardinare e di annientare quel principio fondamentale che sottostava ad ogni potere, il principio fondamentale cioé, in forza del quale ogni potere si riconosceva anch'esso tributario e sottomesso ad una legge divina.
Ogni potere umano riconosceva il dovere di conformarsi e di ottemperare ai voleri della superiore legge divina.
Ora invece, legifera la straordinaria e luciferina superbia dell'uomo, il quale si vuole erigere senza limiti a suprema divinitá di se stesso e a supremo ed unico legislatore, con l'insensato orgoglio che fa diventare l'uomo, il Dio dell'uomo stesso.
Quali strani pensieri si vanno accavallando nella mia povera mente!
La sera del 12 maggio l'intera cittá era in fermento e in subbuglio, senza che ci fosse stato un disegno preventivo e una adeguata organizzazione.
Spontaneamente una folla enorme di gente, la piú diversa, si era riversata nella Piazza e nelle sue adiacenze per manifestare il suo attaccamento alla gloriosa Repubblica che stava in quel momento morendo, vinta dal peggiore e dal piú empio dei mali che possa colpire uno Stato: il tradimanto di alcuni suoi figli!
La folla ancora ingenuamente sperava in cuor suo che il Maggior Consiglio avesse decretato la guerra al Buonaparte; la qual cosa purtroppo sarebbe stata ormai tardiva, poichè egli era giá a Fusina, a Marghera e a Malcontenta. Se solo lo si fosse potuto decidere qualche mese prima, al momento delle formidabili e gloriosissime Pasque Veronesi, a esempio, forse la nostra Repubblica si sarebbe potuta salvare.
Questa folla volle manifestare il suo immenso dolore per la fine della Serenissima ed il suo furore contro i diretti e perversi responsabili di quel disastro, cioé i giacobini, devastando le loro abitazioni.
Anch'io la sera del 12 maggio scorso, non condivisi, e giá da molto tempo prima non condividevo, l'atteggiamento di estrema prudenza, ma di sostanziale cedevolezza, tenuto dai nostri reggitori e dal nostro Doge, il quale paternamente pensava alla salvaguardia della salute fisica dei suoi figli e al pericolo di rovinare o di perdere addirittura questa gemma unica al mondo che é la cittá di Venezia, ove fosse stata sottoposta alle tremende vicissitudini di una guerra, con i suoi bombardamenti, con i suoi saccheggi e con le sue inaudite violenze.
Ma forse non é esatto parlare di non condivisione da parte mia del pensiero del Doge.
Io credo che ad ognuno spetti il suo compito e la sua propria responsabilitá.
Forse perchè sono abituato alla vita militare, e sono diventato un po' troppo pragmatico, io penso che la vita sia una specie di gioco, nel quale ognuno deve recitare la sua parte, e quella di un altro é diversa e opposta alla mia, ma se lui fosse al mio posto, egli si comporterebbe come mi comporto io, e se io fossi al suo, mi comporterei come lui.
Al Doge forse si competeva di essere prudente, e a lui si addiceva di essere preoccupato per la salute e la conservazione dei beni umani e materiali che gli erano stati affidati, mentre al singolo individuo spettano ben minori e differenti responsabilitá.
Il singolo individuo, come me, deve rispondere davanti a Dio e davanti ai posteri solo delle sue azioni, e solo delle ripercussioni che esse possono avere sul suo singolo destino o su quello del suo non numeroso prossimo.
Venezia in questi mesi, in questi giorni, non era una cittá concorde e unita, ma una cittá in cui operavano molti traditori, gente, soprattutto fra i nobili, che aveva in cuor suo giá abbracciato le idee del nemico invasore, e che cercava in tutti i modi di appoggiarlo e di favorirlo.
Piú o meno nascostamente essi si adoperavano perchè la Repubblica non si difendesse dal Buonaparte con le armi e con le milizie, consigliando invece di dialogare e di trattare con lo stesso (come fosse giovevole al topo dialogare e trattare con il gatto), pur consapevoli che quei colloqui a nulla sarebbero serviti, se non a consegnargli su un piatto d'oro la testa della Serenissima, risultato che essi maleficamente volevano e perseguivano con empio accanimento.
A questo scopo brigarono affinchè le truppe Schiavone, assai numerose e fedelissime, fossero allontanate, e cercarono in tutti i modi di preparare un terreno propizio all'invasione, sperando di guadagnare i favori, e di acquistare potere, quando fosse finalmente arrivato il loro cosiddetto "liberatore".
Una marcita purulenza si era perció insinuata nel corpo stesso della Repubblica e ne aveva infettate le viscere.
Se il Buonaparte é stato senza dubbio l'antagonista che ha causato la caduta della nostra Patria, dobbiamo anche purtroppo ammettere che é stato potentemente aiutato e che la sua vittoria é stata efficacemente preparata e favorita da tale infetta purulenza che aveva minato e corroso la nobiltá veneziana e che, abbondantemente diffusa in essa, aveva finito col tramutare tanti Cittadini in autentici traditori.
Idee sovversive e ostili alla nostra Repubblica, giunte dalla Francia, sviluppate e promosse da organizzazioni misteriose e nascoste che operavano nel segreto, hanno fatto esplodere dall'interno la Serenissima, paralizzando, bloccando le sue possibilitá e capacitá di resistenza, alimentando cosí la sfiducia e la codardia, facendo falsamente credere che il venire incontro a Napoleone senza combattere, accogliendolo a braccia aperte, non avrebbe comportato alcun danno per i Veneziani, per il suo governo e per la nostra Religione.
A un punto tale che, nel momento in cui maggiormente ci sarebbe stato estremo bisogno di unitá di intenti e di convinzioni, di slancio virile e di energico entusiasmo, quel fiero clima morale che avrebbe favorito la resistenza allo straniero, si é liquefatto ed é venuto meno.
Venezia é stata la prima Nazione a cadere a causa di questo ariete, di queste nuove credenze soltanto umane che si vanno diffondendo nel mondo, ma ben presto cadranno altri Stati, altri governi che si reggevano su di un fondamento religioso.
Tutto ció é provato dallo stesso odio furente e rabbioso che Napoleone cova contro il nome e l'effige di San Marco, che vuole cancellare da tutta Venezia, da tutte le Venezie, dal linguaggio e dal ricordo dei Veneziani e dei Veneti.
Poichè la stessa dizione "San Marco" richiama alla mente sia la Patria nostra, Venezia, sia la Fede cristiana, poichè San Marco é insieme un evangelista di Cristo e il Protettore per antonomasia della Repubblica veneziana e della sua civiltá.
Soltanto l'autentico Popolo veneziano, genuino e minuto, si era mantenuto immune da codesta suppurazione spirituale.
Si vedevano dappertutto le tracce di codesto tradimento, vera lebbra morale, basti pensare, Madre mia, lo dico con sgomento e con raccapriccio, che un nobile veneziano, Giacomo Foscarini, uscendo dal Palazzo Ducale dopo aver votata la terribile e tremenda decisione che affossava la Serenissima, ebbe a gettare a terra la veste senatoriale e calpastandola, si mise all'occhiello della giacca una coccarda francese.
Quest'uomo io credo meriti di essere definito non piú un Senatore Veneto, bensí una spregevole prostituta da strada.
Sono stati essi, i giacobini, a impedire con mille inganni che Venezia, a tempo debito, quando lo si poteva fare con qualche probabilitá di successo, si sollevasse in armi contro il Buonaparte. Essi fecero credere che le sue truppe fossero piú potenti e maggiori di quel che erano, cosí come gli stessi francesi del resto facevano, quando esigevano dalle venete popolazioni molto maggiori viveri del necessario, per far credere di essere assai piú numerosi di quel che effettivamente erano, mentre poi gettavano il pane che loro logicamente avanzava, a marcire nei fossi.
Per cui, constatando le cose giunte a tale sfascio, e la cittá in preda al marasma piú completo e divenuta tutta un fermento e un subbuglio e una spontanea sommossa contro i giacobini, sostenitori delle truppe francesi, anch'io ed altri miei amici ci sentiamo ribollire il sangue nelle vene, e la sera di quello stesso triste giorno che vedeva la fine della gloriosa Repubblica di San Marco, anche noi organizzammo una specie di rivolta, tanto improvvisa, quanto sicuramente malaccorta e non ben preparata.
Ai piedi del Ponte di Rialto avvenne lo scontro, ahimé, tra le truppe della Municipalitá provvisoria e i gruppi di rivoltosi che io capeggiavo.
Fratelli contro fratelli, ma fratelli fedeli gli uni, e fratelli traditori gli altri!
Da una parte noi che non volevamo cedere alle ingerenze e alle prepotenze dei francesi, i quali volevano dettar legge in casa altrui tramite loro convinti emissari e fautori, e dall'altra le truppe della Municipalitá provvisoria.
Abbiamo combattuto da leoni, finchè abbiamo avuto armi per combattere.
Io ero vestito della mia divisa della Veneta Marina, con la sciabola sguainata in una mano mentre reggevo nell'altra il gonfalone di San Marco.
Posso e voglio dirlo, al fine che possiate essere fiera e orgogliosa di Vostro figlio.
Ho visto morire amici devoti e carissimi in quei tragici momenti, e confesso di averli poi invidiati.
Una ventina circa furono i morti in quello scontro: fu usato contro di noi perfino un cannone.
Moltissimi altri furono fatti prigionieri e condotti in carcere come malfattori.
Io riuscii al momento a sottrarmi alla cattura, ma venni arrestato pochi giorni dopo, quale capo di quei rivoltosi insorgenti.
Su di me scese allora una nebbia fitta, una sensazione di malessere inaudito, quasi mi avessero distrutto ogni difesa ed ogni luce interiore.
Ma come?
Venire assaliti, venire fatti prigionieri, solo perchè avevamo ingenuamente e coraggiosamente difeso la nostra Patria, le nostre tradizioni, i nostri affetti piú cari, le nostre case, le nostre famiglie, contro un governo improvvisato e marionetta, governo manovrato da truppe straniere e ostili, le quali, tramite loro ambasciatori, giá da mesi pretendevano dettare ai nostri governanti e al nostro Doge, condizioni e modi di governare?
Quello che fino al giorno prima era sacro e doveroso, nominare e gridare cioé a gran voce il nome di San Marco, nel qual nome si condensavano le nostre piú che millenarie credenze di Fede e di Patria, di punto in bianco, all'improvviso, doveva venir bandito, evitato, e peggio ancora disprezzato e rifiutato con orrore, anzi, peggio ancora, punito immediatamente con la morte?
Mi sembrava di aver perduto ogni memoria, ogni senso di logica, ogni punto di riferimento, mi sembrava di barcollare come un uomo totalmente privo di forze.
Poi nelle lunghe ore del carcere, nelle estenuanti attese del processo cui venni sottoposto, pensai che nei secoli futuri qualcuno avrebbe chiesto: -"Possibile che non ci sia stato nessuno, proprio nessuno, che in quella, una volta fiera e gloriosa Venezia, osasse ribellarsi a un tanto tragico ed empio destino, che prendesse un'arma in mano e tentasse di opporsi a quella ingiustizia, a quella barbarie, a quella crudele soperchieria? Magari senza alcuna certa prospettiva di far trionfare il suo tentativo, ma solo per dare una testimonianza di virilitá, di amor patrio e di coraggio?"
Ebbene potrete rispondere Voi, e potranno rispondere i posteri: -"Si, quel lontano 12 maggio del 1797, ci sono stati a Venezia numerosissimi uomini, uomini per davvero, che il coraggio se lo son dati, e che hanno preferito e scelto di morire da uomini liberi, piuttosto che sopravvivere da servi o da traditori.
C'é stata una cittá tutta intera, c'é stato tutto un Popolo, il Popolo veneziano, fedele al governo piú che millenario, che si é ribellato, ed é insorto, da Castello a Canareggio, da San Marco a Dorsoduro, che ha devastato e fatto scempio della case di quei traditori che avevano fatto cessare il Serenissimo Governo e lo avevano venduto ai francesi, come avvenne al palazzo all'Anzolo Raffaele, di quel Foscarini, di cui vi ho detto prima.
Quel popolo gridava: "Periscano i giacobini!".
Sí, fra loro, fra gli insorgenti, c'é stato anche Antonio Mangarini, veneziano dello Stato da Mar, perchè zaratino di origine, un uomo ignoto, un giovane venticinquenne qualsiasi, un veneziano come tanti altri, un Alfiere della Marina Veneta, il quale sentiva la fierezza di esserlo, e che ha combattuto contro i traditori, ed é morto per questo".
Pensate a quello che Vi dico, e consolateVi in questi pensieri, quando io non calpesteró piú la nostra amata patria terra.
Durante il processo seguito alla mia cattura, i giacobini, in conformitá alla loro collaudata abitudine, mi hanno calunniosamente accusato di vari misfatti, ma erano accuse grottesche, meschine e ridicole, quale ad esempio, quella di essermi appropriato di un modestissimo quantitativo di formaggio nel corso di quella sollevazione!
Ma come si puó solo pensare che un uomo, un ufficiale, si voglia esporre al rischio di morire prima in combattimento, e poi davanti ad un plotone di esecuzione, per un po' di miserevole formaggio?
Ahimé, madre mia, come sono dolorosi tutti questi abietti tentativi di infangare moralmente il proprio avversario!
Hanno detto e scritto che io ero un ubriacone, quando io mai detti questo esempio, salvo una volta sola, quand'ero giovanissimo e totalmente inesperto dei poteri del vino, ma i giacobini neppure potevano conoscere questo lontano episodio.
Ma quale uomo, quale soldato d'altronde, non ha mai ecceduto, e forse piú di una volta, gozzovigliando con gli amici?
Hanno detto che ero feroce, e lo hanno detto proprio loro che contro di noi, che insorgemmo con sciabole e moschetti, impiegarono impietosamente addirittura un cannone.
Hanno detto che ero un "impentito", cioé che non avevo mostrato, durante la detenzione ed il processo, segno alcuno di pentimento.
E su questo hanno detto il vero, poichè sarei stato uno stolto e un codardo, se avessi mercanteggiato una pena piú dolce, in cambio di un mio tradimento.
Non mi avete formato di tale stoffa, Madre mia, non mi avete educato con simili bamboleggianti principi, da aver cosí grande paura della morte, al punto da tradire i miei ideali e tutto il mio essere!
Se una dolcezza invece scende in me in questi momenti pieni di affanno, la devo al pensiero che muoio per la mia Patria, che muoio per la mia Venezia.
Questa cittá, che il poeta Francesco Petrarca ebbe a lodare con parole che mai nessuno potrá eguagliare per sinceritá e per bellezza, parole che mio padre, quand'ero giovane adolescente, Voi lo sapete, mi ha ripetuto infinite volte per stimolarmi ad amarla e a rispettarla: -"... L'augusta cittá di Venezia, unico rifugio di libertá, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto cui possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita; cittá ricca d'oro, ma piú di fama, potente di forze, ma piú di virtú, sopra solidi marmi fondata, ma sopra piú solide basi di civile concordia ferma ed immobile, e meglio che dal mare, da cui é cinta, dalla prudente sapienza dei figli suoi munita e fatta sicura...".
Ahimé, queste parole, che da lunghi anni io conosco a memoria, come hanno il potere di indurmi al pianto, pensando al declino, al tramonto, alla perdita totale e forse irreparabile, di tutto ció che rendeva orgogliosa la nostra vita e floride e sicure le nostre speranze!
Io moriró, forse tra pochi minuti, nel campo solitario di San Francesco della Vigna, una bella chiesa palladiana, quasi periferica, a due passi dal quel vero santuario della Venezianitá, che é l'altra chiesa di Santa Giustina, ove ogni anno al giorno 7 di ottobre si reca (ma ormai, purtroppo, dovrei scrivere "si recava") il Doge con amplissima solennitá, per il dono celeste della vittoria riportata sui Turchi, il giorno felice e gloriosissimo della battaglia di Lepanto.
A quella battaglia navale partecipó il grande scrittore spagnolo Miguel Cervantes, che vi perse la mano sinistra a seguito di una archibugiata turca; egli poteva perció parlarne con cognizione di causa, e la definí con queste parole: " ... la piú memorabile e alta circostanza che videro i secoli passati e che non sperano di vedere quelli futuri.... ".
Ricordo di aver partecipato una volta, alcuni anni or sono, a quella meravigliosa cerimonia in ricordo di tanto gloriosa battaglia.
Ero allora un adolescente e mi trovavo in compagnia di mio padre, vi ricordate? Mi sentivo perticolarmente fiero di poter parteciparvi.
Eravamo tutti e due pigiati e stretti tra la folla, sopra il ponte davanti alla chiesa, e casualmente ci trovavamo accanto a un elegante e fiero signore tedesco, con il quale, conoscendo mio padre, come Voi sapete, abbastanza bene l'idioma germanico, egli scambió un lungo colloquio.
Mio padre illustró a quel nobile tedesco le varie fasi della cerimonia stessa e la sua motivazione storica: ricordo che, pur al momento non comprendendo le singole parole, mi illuminavo di soddisfazione e di gioia, vedendo quello straniero rapito dalla commozione, tutto entusiasta per poter assistere a quella impagabile rievocazione di avvenimenti cosí gloriosi.
Ricordo ancora, poi mi riferí mio padre, che egli era uno scrittore, credo d'una qualche fama, a nome Johann von Goethe.
Sia benedetta (e potesse venire sempre lodata dai nostri posteri), la sua partecipazione cosí appassionata, la sua adesione ed il suo entusiasmo cosí totali e sinceri a quel nostro ormai lontano ricordo.
Mi sembró, in quei momenti, di essere giunto al settimo cielo, poichè sentivo, che egli guardava noi, Veneziani, quasi con una sorta di nobile e lodevole ammirazione.
Torno mestamente a noi, al mio momento attuale.
Voi ben potete immaginare l'animo con il quale Vi scrivo.
Fra pochi minuti, credo tra un'ora al massimo, io non saró piú di questo mondo, e si parlerá di me, ammesso che se ne parli, al tempo passato, come di una identitá che non é piú, della quale non si deve piú far conto alcuno.
Ma Voi, cara Madre, continuerete a parlare di me e a pensare a me, ne sono certo, con tenerezza e affetto continui.
Quando, nei primi giorni di prigionia, pensavo alla mia condanna a morte, condanna che era scontata e ben prevedibile, confesso che mi sentivo quasi gelare dentro,mi sembrava di non poter piú respirare, ne di poter piú compiere alcuno di quei movimenti naturali che avvengono senza partecipazione della nostra volontá, come l'aver fame, il patir la sete, il provare un fisico desiderio per qualche cosa ....
Successivamente, mi sono lentamente riadeguato alla vita ... ma che importa, ormai, tutto é finito, i giochi sono conclusi, l'attimo di vita sta passando, ed é giunto il momento di morire.
Un'angoscia mi stringe l'animo.
Altra cosa é il morire durante una battaglia, perchè l'esaltazione del momento e il frastuono delle armi ti impediscono di pensare, di riflettere, quasi di renderti conto di ció che sta accadendo, impegnato come sei nel difenderti e nell'offendere, ma morire cosí, nel bel mezzo della tue normali attivitá, per una disposizione di volontá altrui, espressa in termini tranquilli e pacati, anche se severi, come fosse la lettura monotona di un verbale amministrativo, e invece quelle parole fredde e impersonali, significano per te la fine di tutto...
Nonostante il fatto che, in fondo, siamo tutti dei condannati a morte, che giá nascendo riceviamo subito la condanna capitale, dal bambino che gioca spensierato, fino al vecchio che non puó piú distrarsi lavorando o giocando, e ha tutto il tempo e l'agio per pensare a quello che, fra poco, lo attenderá di sicuro, l'inderogabile certezza di dover morire non é gradita alla mente di noi uomini.
Questa sensazione e questa certezza ancor piú sono innaturali e terribilmente contrarie al nostro stesso essere, quando si é giovani, quando tutto il tuo corpo ti grida, ti urla di essere fatto per vivere, di essere fatto per amare, di essere fatto per portare a compimento la tua missione nel mondo, grande o piccola che essa debba essere.
Ma forse il mio compito nel mondo io lo ho giá assolto, la mia missione la sto compiendo, fra pochi minuti l'avró giá compiuta e perfezionata.
Perció ora me ne posso andare, ed é conforme a giustizia che io vada.
Perchè ho riscattato la vergogna e l'ignominia di questi giorni, e di fronte a tutti ho mostrato, assieme agli altri veneziani insorti, che Venezia non é una frolla cortigiana, ma una donna degna delle antiche eroine romane, ed é forte come le vergini cristiane che andavano cantando di fronte alla morte, che per loro era la porta della vita.
Scusatemi, Madre, le mie frasi vanno e vengono nel turbinio dell'urgenza che ho di Voi e della Vostra Benedizione.
Nei primi giorni, ricordo, mi pareva di impazzire.
Era come trovarsi in una cupa e oscura prigione, avvolti da un velo che ti soffoca, da cui ti senti vinto e sopraffatto, che ti impedisce ogni movimento, ma te ne lascia pur sempre il desiderio e la sterile volontá.
Poi, non so piú come, é subentrata la rassegnazione, e con essa, il silenzio e la pace.
Molto di questa trasformazione lo debbo, onestamente e sinceramente, a frate Benedetto da Venezia, un vecchio francescano che assiste, per suo dovere ma anche per sua espressa volontá, i condannati a morte.
Mi é stato vicino in questi terribili giorni di febbrile attesa dell'esito del processo, e di acuta disperazione dopo, come padre al figlio.
Egli, posso dirlo, mi ha riavvicinato alla Fede, da cui mai, per la veritá, mi ero consapevolmente dissociato.
Semplicemente, come tanti miei coetanei, l'avevo trascurata, non l'avevo piú considerata come una cosa importante, come una cosa essenziale.
Le follie di Venere mi avevano preso nei loro tentacoli, é una realtá istintiva e naturale, in fondo, ci si lascia andare e non si pensa piú ad altro. Amor omnibus idem - diceva il poeta Virgilio, che avevo appreso ad amare da mio padre - L'amore é lo stesso per tutti.
D'altra parte, Voi lo ricordate bene, anche un nostro grande conterraneo, San Gerolamo, gridava al Signore: -"Parce mihi, Domine, qui Dalmata sum", ben sapendo quanto la nostra stirpe sia sottoposta terribilmente alla violenza dell'ira ed a quella della concupiscenza.
Chissá cosa sarei potuto diventare, senza una madre accanto, perchè lontana, che mi consigliasse, senza la presenza di un padre, perchè defunto, che mi ammonisse.
Chissá, forse Dio ha avuto compassione di me, e mi ha sollevato alle attuali vertiginose altezze, senza alcun mio merito.
Ora, madre mia, sono io che attraverso l'ora delle tenebre, sono io che sudo sangue, e che chiedo al Padre di allontanare il calice amaro dalle mie labbra, sono io che gli chiedo perchè mi abbia abbandonato, sono io che soffro, non vedendo piú accanto a me lo sguardo affettuoso nè di mia madre, nè degli amici, e vedo invece facce vuote e ostili, mentre un'amarezza infinita mi riempie l'animo.
Ma al tempo stesso, sono anche il medesimo io, il medesimo Antonio, che si sente tuttavia un tutt'uno con suo fratello Cristo, che mi appoggio a lui, che vado febbrilmente cercando nei suoi occhi ed in quelli della Madre sua il lampo d'intesa che mi assicuri una futura pace...
Avevo tanti progetti nelle mie intenzioni ma adesso tutto si é fermato, come per prodigio, non ho piú alcuna speranza terrena, ho raggiunto il traguardo, benchè giovane. Quel che é fatto, é fatto, i miei desideri sono stati decapitati, ma il mio spirito é integro, e forse é felice di aver giá fatto quel poco che il Padre aveva voluto che io facessi.
Se saró stato fedele in quel poco, lo saró ben presto e di piú in quel molto che mi attende.
Muoio, madre mia, perdonando a coloro che mi uccidono, perchè voglio presentarmi a Dio privo della zavorra dell'odio, e capace perció di liberarmi a volo nella pienezza dell'amore.
Nel momento in cui le pallottole fischieranno la mia morte, io grideró per l'ultima volta come una suprema testimonianza di fede e di amore, quel grido che ora essi aborrane e vietano. Essi piú di uccidermi non possono fare, mentre il grido eroico e meraviglioso di: "Viva San Marco!", continuerá a risuonare dopo che il mio corpo sará caduto inerte a terra.
Il sorriso impresso sul mio volto Vi dirá come io sia caduto affidando il mio spirito al Padre di noi tutti.
Madre mia, in questo momento sento rullare sottovoce i tamburi dell'esecuzione: questo rullio a poco a poco andrá aumentando di intensitá fino a quando, al massimo del suo fragore, le guardie entreranno nella cella per condurmi all'ultima salita.
Chiudo questa lettera e la consego a fra' Benedetto da Venezia, il quale provvederá a farvela recapitare in sicurezza.
Non ho piú che queste ultime frasi per dirvi quanto Vi voglia bene, per chiedervi perdono di tutte le sofferenza che vi ho procurato, e per dirvi che sono certo del Vostro perdono e della Vostra Benedizione.
La morte sará cosí un tornare bambino, quando mi portavate nella suggestiva chiesa della Madonna degli Olivi, a Zara, la piccola Patria mia, e io stanco delle grandi corse, prendevo sonno accanto a Voi, mentre mi accarezzavate la testa con la mano lieve....
Addio, madre mia, addio.
Venezia, 24 giugno 1797
Festivitá di san Giovanni Battista
Gentile signora Mangarini,
Aggiungo queste poche righe, in un separato foglio, alla lettera che vi ha scritto vostro figlio Antonio, e che io non ho letto, perchè é giusto che siate voi la prima a leggerla.
Le due missive Le sono trasmesse da un confratello, Frate Vittorio da Montereale Valcellina, il quale dovrá recarsi a Zara nei prossimi giorni.
Vi scrivo soltanto per assicurarvi dei buoni sentimenti con cui Antonio ha vissuto in queste ultime settimane.
Grazie al mio ufficio di cappellano dei condannati a morte, ho potuto visitare e conversare con Antonio quasi ogni giorno, in questo ultimo periodo, e posso dirLe di non aver incontrato difficoltá alcuna nel prepararlo dolcemente al gran passo.
Questa mattina stessa gli ho portato il Pane di vita, che ha molto gradito e che ha ricevuto con forza serena e con amoroso rispetto.
Ho assistito poi, a lui vicino, ai suoi ultimi momenti e posso dirLe perció che la sua morte é stata per me di grande edificazione.
Egli é morto la vigilia della festa del Battista e, come lui, é morto testimone della Giustizia e della Veritá.
E' morto in una dolce sera di giugno, quando, nelle nostre campagne venete, si raccolgono i fiorellini campestri che serviranno poi alle brave donne di casa per preparare la buona camomilla.
E' morto perdonando ai suoi uccisori, come sarebbe semplice dovere di ogni buon cristiano.
Confido che l'anima di Antonio la aiuterá a condividere questo spirito d'amore che Antonio ha saputo abbracciare, e che nel perdono Lei si senta unita eternamente al suo Figliuolo.
Colui che non sia disposto a perdonare, sempre e tutti, sempre e tutto, non comprende l'insegnamento di Nostro Signore Gesú.
Il Signore ci disse di perdonare settanta volte sette, il che vuol dire un numero infinito di volte, e quindi sempre; il cristiano si impegna a perdonare ogni volta che recita la preghiera del Padre Nostro, lá dove diciamo "....rimetti a noi i nostri peccati, come noi li rimettiamo a coloro che hanno peccato contro di noi".
La triste pianta dell'odio, del risentimento e dell'acredine é una brina gelata che brucia le nostre anime e distrugge ogni tenue virgulto di bene che fosse in essa cresciuto o stesse per formarsi.
Non lasciamoci dunque vincere dall'odio, che é la forma piú visibile e orrenda del male, ma vinciamo il male col Bene, secondo l'insuperabile e intramontabile parola di San Paolo. Abbandoniamo questa pesante zavorra e la gelida chiusura verso i nostri fratelli.
Il perdono che daremo a coloro che ci hanno fatto del male, sará il nostro lasciapassare per l'eternitá.
Verrá un giorno in cui anche Napoleone, che tanto male ha fatto e sta facendo alla nostra Patria e a noi tutti, sará anche lui un vinto, e tremerá nel tormento dell'agonia, lui che non piega il suo ginocchio davanti a nessuno, lui che non ha timore di alcuno, ma incute timore a tutti, lui sentirá pesantemente la presenza di Uno che é piú forte di tutte le Armate umane ed é piú potente di tutti i cannoni del mondo.
Sará forse allora proprio l'anima di Antonio, assieme a quella dei tantissimi altri che avranno patito a causa sua, ad accorrere al suo fianco, al suo capezzale, e ad ispirargli benevolmente quel necessario sentimento d'umiltá che provoca il desiderio di venire perdonato.
Non ostacoli questo futuro processo di conversione, che sono certo potrá venire anche per quel despota, ma lo favorisca giá ora con il suo aperto perdono. Si unirá cosí ai sentimenti con cui Antonio é spirato.
Io stesso gli ho chiuso gli occhi per sempre, e con la mia carezza, la mia preghiera e la benedizione del Signore lo hanno accompagnato nella tomba.
Sia forte in Lui, che é forza, nel superare questo momento di grandissimo dolore, e sia fiera di Antonio e degna di lui.
Nel dolce e augusto nome di Cristo Gesú, La saluto con affetto.
Postilla di Federico Fontanella, per una miglior comprensione del racconto stesso.
Non rattristatevi, non vi perdete d'animo, amici Lettori, non state a credere di essere particolarmente ignoranti in materia, se dovrete constatare, dopo aver letto questo racconto, che ignoravate, prima di leggerlo, perfino l'esistenza di Antonio Mangarini.
Che é poi il primo degli insorgenti, cioé il primo di quella foltissima schiera di martiri, le cui vicende si cominciano a scoprire e a mettere in luce da appena qualche anno, dopo l'imposizione dell'oblio risorgimentale, durato per quasi due secoli.
Anch'io, lo confesso apertamente, fino a pochissimo tempo fa non sapevo chi fosse, cosa avesse fatto, e il suo nome non mi avrebbe richiamato alcunchè alla memoria.
Ignoravo tutto di lui, a cominciare dal nome, come forse accadrá a voi, come forse accadrebbe a tantissimi veneziani, pur amanti della storia della nostra cittá e desiderosi di conoscerla sempre piú e sempre meglio.
Avrei continuato a ignorare l'esistenza del Mangarini, cosí efficacemente ignorata e occultata, anzi fatta sppellire nel silenzio e nell'oscuritá dalla storiografia di stampo risorgimentale, fieramente ostile a ogni ricordo locale, se non fosse stato per un libretto intitolato "Da la parte de San Marco", opera di quel valente studioso e scrittore di Storia Veneta e appassionato ricercatore di documenti antichi e polverosi, che é il professor Gian Paolo Borsetto.
In tale libretto sono contenuti tutti i dati, scarsissimi, ma sufficienti, per comprendere e farsi un'idea dell'uomo Antonio Mangarini e delle sue ultime vicende terrene.
Analisi della sentenza e del contesto storico, di Umberto Sartori.
La sentenza di morte contro Antonio Mangarini
Chi si prenda la briga di leggere la lettera della sentenza pronunciata contro Antonio Mangarini, finalmente trovata sul sito del giornale degli Alpini "Il Mulo", ben comprenderá l'imbarazzo di chi abbia appena fondato un Gruppo patriottico e scopra di averlo posto sotto l'egida di un "volgare saccheggiatore".
Dal momento peró che é arcinota, la tendenza falsificatoria dei governi moderni e in particolar modo di quelli provvisori e rivoluzionari, poteva non essere difficile una confutazione, a mezzo di logica, di tale infamante sentenza.
A una prima lettura superficiale, mi fu infatti facile dimostrare d'acchito l'estrema improbabilitá della sequenza delle azioni del Mangarini cosí come esposte nella sentenza.
"Udita l'accusa ... presentata al Retento Antonio Mangarini dí anni 24 circa nativo di Zara, era Alfier nel battaglion colonnello Danese...
...
Considerando ... essersi ritrovato fra li principali capi assalitori, e svaleggiatori della Bottega del Cittadino Giuseppe Ruggieri Formaggiero.
Considerando aver egli garantito con palosso sguainato, abusando della Militare divisa, li violenti suoi compagni che si impiegarono ad alterarne la porta: ..."
La descrizione dei fatti criminosi, cosí come presentata nella sentenza, é forte spunto per dimostrare secondo logica la possibilitá che si tratti di una invenzione o, come si direbbe oggi, una "montatura".
Nella sentenza si racconta infatti:
"Considerando aver il prefato Mangarini partecipato al reo Svaleggio, come consta anche dalla stessa difensiva sua allegazione, scortando quindi li generi derubbati con l'arma suddetta alla mano sino entro la bottega di un altro Cittadino Formaggiaro per nome Francesco Gobbato, il quale fu costretto con modi violenti a comprarlo".
Questo comportamento é incompatibile con quello di un volgare saccheggiatore. Quale ragione avrebbe questi, di rubare all'uno per vendere all'altro, quando a rigore é in condizione di svaligiare entrambi? Da un volgare saccheggiatore ci si aspetta l'arraffare, i denari del Gobbato proprio come il formaggio del Ruggeri; quale vantaggio potrebbe trarre, un volgare saccheggiatore, nel fare invece da "scorta" e da "garante" in una specie di transazione commerciale coatta?
Tuttavia la mia stessa confutazione puó essere ribaltata: quali ragioni poteva avere un tribunale demagogico, nel costruire tale montatura? Che bisogno aveva di inventare questa stramba storiella, quando poteva semplicemente affermare che, appunto, il Mangarini avrebbe derubato sia il Ruggeri che il Gobbato?
A far pendere fortemente la mia opinione verso questo ribaltamento della primitiva confutazione si sono aggiunti alcuni dati emersi da un approfondimento dell'attivitá di quel tribunale.
Delle numerose sentenze rintracciabili contro i partecipanti e i sospetti di partecipazione ai fatti della breve insurrezione veneziana, quella contro il Mangarini é l'unica che decreta una condanna capitale.
Tutti gli altri vengono assolti, o perdonati, o condannati a lievissime pene, anche quando trovati in possesso di beni provenienti da reali saccheggi.
Sorge cosí la terza domanda, che contiene forse la risposta a entrambe le precedenti: "Perchè solo il Mangarini fu fucilato?"
E la risposta é forse proprio in quella stramba storia che non calza nè con la tesi del volgare saccheggiatore, nè con quella della montatura demagogica.
Mangarini é fucilato perchè é l'unico, fra gli arrestati, che ha voluto fare del saccheggio un atto politico e militare, perchè ha usato se stesso e la divisa per legittimare una procedura di vittoria, quella del saccheggio (piú o meno "controllato"), comune in quei tempi a tutti gli eserciti.
Sentenza di morte pronunciata dalla Municipalitá Provvisoria di Venezia verso Antonio Mangarini, insorto contro la congiura filofrancese.
A lettera della sentenza, egli non é nemmeno svaligiatore attivo, sono "li violenti suoi compagni che si impiegarono ad alterarne la porta ".
Il Mangarini, con il suo palosso e la sua divisa, svolge ruolo di aver "garantito" quei suoi violenti compagni, e di aver proseguito il suo compito "scortando quindi li generi derubbati con l'arma suddetta alla mano".
Con la sua divisa e la "stramba" sequenza dei suoi gesti il Mangarini intende forse ancora servire la Repubblica, far sí che non di un volgare saccheggio si tratti ma di una operazione militare.
Certo gli sfugge che un esercito mai dovrebbe sacccheggiare la sua propria Patria, ma vediamo che si tratta di un giovane militare, forse appena graduato, costretto ad assumere un posto di comando decisionale dalla defezione in massa dei suoi Comandanti e strateghi.
Sappiamo inoltre dal Tentori e non solo, di quanto fossero accese ormai le fazioni cittadine, e agli occhi del giovane militare dovette apparire che alcune di queste fossero ormai nemiche in armi della Repubblica stessa.
Egli svolge dunque il suo dovere nei limiti delle sue possibilitá di comprensione, fá quello che puó per mantenere in vita la Repubblica in cui ha creduto e che ha giurato di servire.
Soprattutto, forse, vuol lasciare di quei momenti, nei quali era principalmente la criminalitá comune, a operare saccheggio sotto le mentite spoglie dell'insurrezione, una immagine diversa, una immagine di un saccheggio "civile, controllato", non motivato da rabbia o aviditá, ma dall'amministrare una punizione contro i traditori della Repubblica.
Ecco perchè scorta, palosso alla mano, il formaggio "requisito" fino a un'altra bottega, dove venga registrato che quel formaggio non era stato mangiato per strada da un'orda di vili ladroni, ma "preso in consegna e trasferito" da una ordinata squadra di militari, pur improvvisati, sotto il suo comando e responsabilitá.
Sará questo a costargli la vita, l'aver saputo militarizzare e rendere disciplinata una delle bande di saccheggiatori, il che lo rese forse l'uomo piú pericoloso del momento agli occhi del fragile governo provvisorio.
Infatti Antonio Mangarini é l'unico fra i processati a non volersi scagionare o chiedere perdono:
"... aver il prefato Mangarini partecipato al reo Svaleggio, come consta anche dalla stessa difensiva sua allegazione... ".
Non ha, Antonio, di che vergognarsi: va incontro al plotone a fronte alta come a un nemico in armi. Muore da eroe e martire della sua Patria repubblicana, non da volgare saccheggiatore.
Ringrazio il ricercatore indipendente dott. Paolo Foramitti per le segnalazioni e i suggerimenti, che hanno procurato occasione e fonti per questo approfondimento nella questione del martire zaratino Antonio Mangarini.
Tali fonti hanno portato anche alla rettifica del nome stesso del Martire, che era stato inteso dai promotori delle prime iniziative e quindi da me come "Margarini".