Storia di VeneziaPagina pubblicata 24 Ottobre 2011
Discorsi famosi in Senato Veneto:
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Il Cornaro dal canto suo richiama la promissione dell'Imperatore di farne un Ducato indipendente assegnato allo Sforza. L'arringa di Cornaro è tutta finalizzata a sostenere l'importanza per la Repubblica di aiutare la creazione di questo Stato cuscinetto, protetto incrociatamente da tutti i Grandi Stati precisamente allo scopo di non sbilanciare il loro precario equilibrio. Il Re di Francia vuole Milano per sé, l'Imperatore, almeno formalmente, offre di farne Ducato vassallo ma indipendente, la via che la Repubblica deve seguire è quindi chiara: affiancarsi al Re d'Inghilterra e al popolo di Milano che dall'Imperatore sperano mantenga le sue promesse. Il Cornaro non dimentica di riprendere il comportamento generale dei Monarchi, così diverso per lealtà e affidabilità dai costumi di un Popolo repubblicano, e nei suoi esempi paragona le efferatezze francesi alle intemperanze imperiali: ma decidere bisogna: poiché l'assegnazione allo Sforza di Milano è il primario interesse della Repubblica, il Senato deve decidere in favore di quella proposta che almenno ne ammetta la fattibilità. Il Senato, dopo lunghi tentennamenti e indugi, prolungati anche dalla morte del Doge Antonio Grimani, messo infine alle strette dai plenipotenziari esteri, decise con il Cornaro per l'alleanza con l'Imperatore. Un lettore attento può notare in entrambi i discorsi, soprattutto in quello del Gritti, la modifica del tono e del tenore dei discorsi senatoriali. Assai meno vi compaiono i toni ideali che animarono il discorso del Loredan e le motivazioni degli antichi Senati. Umberto Sartori Da: Francesco Guicciardini, Storia d'Italia (1492 - 1534) Libro XV, cap. IITrattavasi in questo tempo medesimo continuamente la concordia tra Cesare e i viniziani; la quale, per molte difficoltà che nascevano e per varie dilazioni interposte da loro, teneva sospesi di quello che avesse a seguirne gli animi di ciascuno. ... Trattoronsi queste cose in Vinegia molti mesi, ... Perché molti consigliavano che non si abbandonasse la confederazione del re di Francia, confidandosi che presto avesse a mandare l'esercito in Italia; la quale speranza il re sforzandosi con somma diligenza di nutrire aveva, oltre a molti altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a Vinegia, a promettere questo medesimo e a dimostrare che già le cose erano preparate: altri, considerando per l'esperienza delle cose passate le negligenti esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero oratore loro in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli era referito dal duca di Borbone (il quale, già congiunto occultissimamente contro al re, desiderava che i viniziani si unissino con Cesare), affermava che 'l re di Francia per quello anno non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la mala fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare che in Italia seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i fiorentini con la Toscana tutta, e si credeva che avesse a fare il medesimo il pontefice; e che fuora d'Italia erano congiunti seco l'arciduca suo fratello, vicino allo stato de' viniziani, e il re d'Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in Piccardia. Nella quale varietà di pareri, non meno tra i principali del senato che tra gli altri, non si potendo, per la maturità delle cose e per la instanza grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire più il farne deliberazione, convocato finalmente per determinarsi il consiglio de' pregati, Andrea Gritti, uomo, per importantissime amministrazioni e fatti molto egregi, di somma autorità in quella repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e appresso ai prìncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza: TOPIl discorso di Andrea Gritti
Non abbiamo cagione alcuna che possa giustificare questa deliberazione, perché il re ha sempre osservato la nostra confederazione; e se gli effetti non sono stati così pronti a rinnovare la guerra in Italia si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i propri interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha avuti e ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i disegni suoi ma non potranno già annichilargli, perché la volontà è sì ardente alla recuperazione dello stato di Milano, la potenza è sì grande che sostenuti che arà questi primi impeti degli inimici, i quali sosterrà facilmente, niuna cosa lo ritarderà che di nuovo non mandi forze grandissime di qua da' monti. Vedemmo dell'una cosa e dell'altra più volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo assaltata la Francia con armi molto più potenti che non sono queste che al presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il mondo, con la grandezza delle sue forze, con la fortezza de' luoghi che sono in su i confini, con la fede de' popoli, facilmente si difese; e quando era nell'opinione di tutti gli uomini che per la stracchezza della guerra gli fusse necessario il riposo di qualche tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece questo medesimo ne' primi anni del regno suo il presente re? quando ciascuno credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta la corona per le spese infinite dello antecessore, fusse necessitato differire la guerra a uno altro anno. Non ci debbe adunque spaventare questa tardità; né sarebbe sufficiente scusa delle nostre variazioni, perché il confederato, ritardato non dalla volontà ma dagli impedimenti sopravenuti, non dà giusta causa di querelarsi al compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestà il rispetto della degnità del senato viniziano, ma non la ricerca meno il rispetto della utilità anzi della salute nostra. Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca, in quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse totalmente il re di Francia dalle imprese d'Italia? Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de' ministri che ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele rapacissima insaziabile sopra tutte l'altre? Ma se il re di Francia possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate tra due tali prìncipi, chi avesse da temere della potenza dell'uno sarebbe riguardato e lasciato stare per la potenza dell'altro; anzi, il timore solamente della sua venuta assicura tutti gli altri, perché costrigne gli imperiali a non si muovere, a non si impegnare a impresa alcuna. Però a me pareva più presto ridicola che spaventosa la vanità de' minacci loro che se non ci confederiamo con Cesare ci volteranno contro l'esercito; come se il muovere la guerra contro al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto la vittoria, e come se questo fusse il rimedio di fare che il re di Francia non passasse, e non più presto cagione del contrario: perché, chi dubita che provocati da loro proporremmo per necessità condizioni tali al re che, quando bene ne avesse l'animo alieno, lo inducessino a passare? Non crediate che se gli imperiali pensassino che la via di tirarci alla amicizia loro o di assicurarsi della venuta del re di Francia fusse lo assaltarci, che avessino differito insino a questo dì a dargli principio. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste ambiguità non occuperanno per sé il ducato di Milano, non tratteranno se non con minaccie vane di offenderci; se noi gli assicureremo da questo timore sarà in potestà loro di fare l'uno e l'altro: e se lo faranno, come è verisimile, di chi altri potremo noi più lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa timidità e del desiderio immoderato della pace? Se adunque il fare noi confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese d'Italia, dà a lui facoltà di occupare ad arbitrio suo il ducato di Milano, occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi comperiamo, con grandissima infamia del nome nostro con maculare la fede di questa republica, la grandezza di un principe il quale non ha manco distesa l'ambizione che la potenza e che pretende, egli e il fratello, che tutto quello che noi possediamo in terra ferma appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che con la grandezza assicuri la libertà di tutti gli altri e che sarebbe necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste ragioni, tanto evidenti e tanto palpabili, non può già essere imputato che lo muova l'affezione più che la verità, più gli interessi propri che l'amore della republica. Della salute della quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre deliberazioni concederà tanto di felicità quanto ha conceduto di sapienza a questo eccellentissimo senato". Ma in contrario Giorgio Cornaro, cittadino di pari autorità e di nome celebrato di prudenza quanto alcuno altro di quel senato, si oppose con orazione tale a questo consiglio: TOP Il discorso di Giorgio Cornaro
Non piegò né il beneficio ricevuto né la fede data né tanti perpetui offici nostri l'animo suo, pieno di tanta cupidità di offenderci che finalmente, reconciliatosi per questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi, contrasse contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinità de' prìncipi grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco Sforza o di qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde depende nel tempo presente la sicurtà nostra, donde nel futuro può dependere, se si variassino le condizioni de' tempi presenti, grande augumento ed esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da continuare l'amicizia col re di Francia o da confederarci con Cesare: l'una di queste due deliberazioni esclude totalmente dal ducato di Milano Francesco Sforza e dà adito di entrarvi al re di Francia, principe tanto più potente di noi; l'altra deliberazione tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello ducato, il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra: però quando tentasse di spogliarlo di quello stato non solo offenderebbe noi e gli altri d'Italia, a' quali darebbe causa di volgere di nuovo l'animo a' franzesi, ma offenderebbe il re d'Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del ducato di Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Così, sottoponendosi a molte difficoltà e pericoli, e a grandissima infamia, contraverrebbe alla fede sua, la quale non si è insino a ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata, cosa che non possiamo già dire noi de' franzesi; anzi, avendo restituito, dopo la morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato, consegnatogli le fortezze secondo che successivamente si sono acquistate, e ultimamente, contro alla opinione di molti, il castello di Milano, non si può dire che non abbia fatto segni contrari. Perché adunque non dobbiamo fare più presto quella deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento nostro che quella che manifestamente tende a fine contrario a' nostri bisogni? Credo che chi così sente di Cesare non si inganni, per la natura e consuetudine de' prìncipi tanto grandi; volesse Dio non si ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano nel suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno potette più la cupidità, l'ambizione, che l'onestà, che l'utilità propria. Senza che, non sono perpetue quelle cagioni che l'arebbono a conservare unito con noi, ma variabili, secondo la natura delle cose umane, di momento in momento: perché e Cesare è uomo mortale come gli altri uomini; è, secondo l'esempio di molti prìncipi stati maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva più presto degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta differenza dall'uno pericolo all'altro quanto è differenza da una deliberazione che ci escluda certo dal fine nostro a una che più verisimilmente vi ci conduca. Dipoi queste ragioni risguardano il tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo stato presente delle cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare ci mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci noi dal re di Francia è credibile riserberà il fare la guerra a migliori tempi e occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe pure essere che di presente la facesse, cosa che di necessità ci porterà molestie e spese. Ma in quale caso è più pericoloso per noi l'esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può quasi tenere per certo che la vittoria sarà da questa parte, cosa che non si può tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e confederandoci con Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la vittoria del re come sarebbe per il contrario, perché in caso tale tutte l'armi de' vincitori si volterebbono contro a noi, e Cesare non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi necessità di occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di Francia di aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia, non a recuperargli poi che gli avesse perduti. Se la volontà lo ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena delle sue colpe? se la necessità, non basta egli questa ragione, quando bene fussimo obbligati, a giustificarci? Non so di che siamo più oltre debitori al re di Francia poiché prima siamo stati abbandonati noi: non so a che più oltre sia tenuto uno confederato per l'altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la guerra, ma né ardirei affermare il contrario, considerato la necessità che hanno del nutrire lo esercito nello stato degli altri, la speranza che potrebbono avere di tirarci per questa via alla loro congiunzione, massime se il re di Francia non passerà: di che chi dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per la loro negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di là da' monti con due tali prìncipi; né può essere ripreso chi di questo presta fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori sono l'occhio e l'orecchio degli stati. Replico insomma il medesimo, che con sommo studio debbiamo cercare che di Francesco Sforza sia il ducato di Milano: donde ne nasce, in conseguenza, che sia più utile quella deliberazione che ci può condurre a questo effetto che quella che totalmente ce ne esclude". TOPSviluppi della situazioneL'autorità di due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva renduto più presto più perplessi che più resoluti gli animi de' senatori, donde il senato allungava quanto più poteva il determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la gravità della cosa, il desiderio di vedere più innanzi de' progressi del re di Francia; e ne erano anche causa molte difficoltà che nascevano di necessità nella concordia con l'arciduca. Accresceva la sospensione degli animi loro che il re di Francia, preparandosi sollecitamente alla guerra, avea mandato il vescovo di Baiosa a pregargli che differissino tutto il mese prossimo a deliberare, affermando che innanzi alla fine del termine passerebbe con maggiore esercito che mai avesse veduto in Italia l'età presente. Nella quale ambiguità mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella città, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che più presto nocé alle cose franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel grado, lasciata meramente la deliberazione al senato, non volle mai più né con parole né con opere dimostrarsi inclinato in parte alcuna. Finalmente, mandando il re al senato continuamente uomini nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le medesime cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a' quali la dilazione era sospettissima, protestorono al senato che dopo tre dì prossimi si partirebbono, lasciando imperfette tutte le cose. Perciò il senato necessitato a determinarsi, e togliendo fede alle promesse del re di Francia l'essere stati tanti mesi nutriti con vane speranze, e molto più quel che in contrario affermava lo imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d'abbracciare l'amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che tra Cesare, Ferdinando arciduca d'Austria, Francesco Sforza duca di Milano da una parte e il senato viniziano dall'altra fusse perpetua pace e confederazione: dovesse il senato mandare, quando fusse il bisogno, alla difesa del ducato di Milano secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per la difesa del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da' cristiani, perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente per non irritare contro a sé l'armi de' turchi: la medesima obligazione avesse Cesare, per la difesa contro a qualunque, di tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia: pagassino all'arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come furno convenute, il senato, avendo già rimosso dagli stipendi suoi Teodoro da Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia, con le condizioni medesime, Francesco Maria duca di Urbino.
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