Storia di Venezia

Pagina pubblicata 30 Gennaio 2017

Cristoforo Tentori, Raccolta Cronologico Ragionata
di Documenti Inediti che Formano la Storia Diplomatica
della Rivoluzione e Caduta della Repubblica di Venezia, 1799 - LXI

INDICE || PDF Tomo Primo 1788-1796 || PDF Tomo Secondo 1796-1797

   

Storia della Caduta di Venezia , LXI
Sommario Commentato della "Raccolta Cronologica Ragionata..." di Cristoforo Tentori

PARTE TERZA
Consumazione della Rivoluzione e Caduta della Repubblica di Venezia
Dal giorno 12 Marzo sin al dì 13 Maggio 1797 (pagg. 3 - 416)

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Storia di Venezia, Distanze dalla gronda lagunare al centro abitato di Venezia

Storia della caduta di Venezia, distanze della gronda dal centro storico. Se era per la forza delle sue armi, Napoleone sarebbe ancora a guardarsela da Marghera col cannocchiale, Venezia.

La seduta di apertura della "Conferenza" dei Savi che si è arbitrariamente sostituita al Senato si tiene nella sera del 30 Aprile 1797.

Il primo problema che si trova ad affrontare è quello di comunicare al Maggior Consiglio 1 gli ultimi infelici sviluppi della situazione ovvero la preoccupante vicinanza delle Armate francesi e la decisione di Buonaparte di volere cambiata la Costituzione della Repubblica di Venezia.

Prende la parola innanzittutto il doge Manin, chiedendo appunto che si ricerchi il modo migliore di approcciare il Maggior Consiglio. Prima però il Doge esorta i convenuti ad ascoltare una proposta avanzata dal procuratore Dolfin, il quale presumibilmente ne aveva anticipato il senso al Doge stesso.

La proposta di Dolfin è presto detta.

Nel corso di un suo precedente incarico come ambasciatore a Parigi, il Dolfin ha avuto occasione di legarsi in amicizia con quello stesso Haller che è "...attual Ministro delle Finanze Francesi, e grande amico del General Bonaparte." (da pagina 326).

Il Dolfin ha mantenuto cordiali e confidenziali contatti con l'Haller per tutta la la durata della sua Ambasceria a Parigi.

Egli propone dunque che gli si dia incarico di rinverdire quell'amicizia visitando l'Haller nella sua casa al fine di chiedergli come favore personale di intercedere presso il Napoleone.

La proposta del Dolfin cadde nell'indifferenza generale dei Savj, a eccezione del Procurator Antonio Cappello, che la derise apertamente come puerile. 2

A questo punto Tentori riporta confusamente un intervento di Francesco Pesaro, dal quale si evincerebbe che costui fosse tornato alle antiche idee di una difesa armata come unica soluzione possibile, vista la determinazione tante volte manifestata da Napoleone e Lallement di vendicare il sangue di Laugier.

Fu poi la volta di Antonio Cappello, che brevemente anche lui ritenne si dovesse aderire alle massime di difesa decretate più volte dal Senato.

Si dovevano quindi leggere delle carte, alcune scritte dal Lallement sull'avvicinamento dei francesi a Venezia e altre relative ai modi e alla persona con cui presentare la situazione in Maggior Consiglio perché questo approvasse una "Parte" che autorizzasse i Deputati Donà e Zustinian a sottoscrivere un Trattato con Napoleone.

Bisogna sapere che, per legge fondamentale della Repubblica, una Parte portata in Maggior Consiglio non poteva essere votata prima di 8 giorni dalla sua presentazione.

Questa dilazione, a detta di Tentori, preoccupava seriamente i "Savj corifei della Rivoluzione" i quali temevano che "dando luogo al maturo riflesso del corpo Patrizio, la Parte fosse rigettata con isdegno, e si rafermasse anzi la "Massima salutare di Difesa" voluta dal Senato.".

Bisognava, per loro, che il M.C. fosse colto di sorpresa e indotto a deliberare in stato di urgenza e senza riflessione alcuna.

Iniziarono dunque il loro ostruzionismo prolungando i commenti alle carte di Lallement e a quelle sulla persona da incaricare per il M.C., fino a creare uno stato confusionale nella Conferenza stessa.
Dalle pagine 327 e 328:

In mezzo ad un tanto imbarazzo il N.H. Zaccaria Valaresso suggerì, che essendo privativo privilegio del solo Serenissimo Doge il poter proporre, e far ballottar sul momento qualunque Parte, ei solo dovesse e far il Quadro al Maggior Consiglio, e proporre la Parte da spedir a' Deputati. Accolto fu con esultanza il suggerimento Valaresso da' Savj raggiratori suoi colleghi, secondati da' timidi, ed imbecilli.

Mentre i Savj felloni portavano a segno questo loro colpo si era fatta notte fonda e all'improvviso giunse un Espresso del Provveditore alle Lagune e Lidi spedito dalla flottiglia schierata di fronte a Fusina.

Il Provveditore avvisa "entusiasticamente" che i Francesi si stanno applicando a costruire dei terrapieni sulla Laguna al fine di avvicinarsi a Venezia, e che avanzano anche qualche picchetto di soldati per mezzo di botti.
Precisa che può distruggere tali tentativi con qualche colpo di cannone, ma ne chiede previa autorizzazione ai Savj (ricordiamo che il Provveditore in carica era Zuanne Zusto; essendo questi vecchio e malato, in realtà le sue funzioni erano svolte dal suo luogotenente Condulmer).

Queste notizie sembrarono spargere la massima desolazione tra i Savj. È in questa occasione che si sarebbe sentito il Doge Manin pronunciare la famosa frase :"Sta note no semo sicuri nè anche nel nostro leto" mentre camminava nervosamente su e giù per la stanza (da pagina 328).
Frase del tutto priva di senso ed evidentemente volta a suscitare il panico tra i più deboli e debosciati dei Savj non felloni.

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Nota di U.S.

Bisogna precisare che ogni tentativo di invasione dal lato di terra sarebbe stato impossibile.

Il bordo lagunare distava allora dal centro abitato oltre 4 chilometri, sia da Fusina al punto più vicino delle Zattere o della Giudecca, sia da Marghera al punto più vicino di Cannaregio Nord.

I Francesi non disponevano di ponti su barche, e anche se avevano più volte avuto modo di servirsi sui fiumi di quelli gentilmente forniti dagli Austriaci, nemmeno questi ne avevano di tale lunghezza.

Inoltre la costruzione di simili ponti sotto il tiro delle artiglierie galleggianti e mobili dei Veneziani volute dal Nani non avrebbe avuto alcuna speranza di essere portata a termine.

Lo stesso e peggio dicasi di "terrapieni", sulla cui esile superficie fangosa i soldati francesi si sarebbero esposti allo sterminio sotto il tiro a mitraglia delle batterie fortificate che li circondavano dall'acqua.

Nemmeno avrebbero potuto servirsi di barche, sia perché non ne possedevano, e quelle veneziane erano state ritirate dalla Terraferma, sia perché le imbarcazioni che potessero navigare nei bassifondi delle barene sarebbero state di piccolissimo cabotaggio e facilissimo bersaglio sia delle artiglierie galleggianti che di quelle installate ai bordi del centro abitato. Nonché, ovviamente, esposte all'arrembaggio da parte della innumerevole flottiglia minore abitualmente circolante a Venezia.

I Veneziani potevano ben essere corrotti e decaduti, ma come combattenti in acqua ancora non erano secondi a nessuno. Manterranno questo primato per decenni, tanto da diventare il nerbo della futura Marina Austriaca.

Nei fatti l'invasione della Dominante non sarebbe stata possibile a Napoleone nemmeno dal mare. La flotta veneta era più numerosa, meglio armata e più esperta di quella francese; inoltre, se si fossero aperte ostilità navali, le numerose unità Inglesi presenti in Adriatico avrebbero approfittato dell'occasione per fare la loro parte, e non certo a favore dei Francesi.

Quando anche la situazione sul mare fosse risultata infine sfavorevole ai Veneziani, quando anche un improvviso voltafaccia inglese li avesse traditi, rimaneva sempre l'invalicabile barriera delle imponenti artiglierie costiere predisposte dalla Serenissima a guardia delle sue bocche di porto.
Nessun vascello a vela o a remi poteva sperare di attraversare quegli stretti canali marittimi senza essere colato a picco sull'istante, come aveva ben sperimentato il Laugier.

Dalla relazione del Commissario Pagador sappiamo che Venezia era in condizione di sopportare eventualmente molti mesi di assedio già con le risorse in essa custodite.

A questo si aggiunga che le restava sempre aperto l'Adriatico come via di costante rifornimento.

Al contrario Napoleone, ormai circondato di terre bruciate dai suoi stessi soldati, appeso al tenue filo di Leoben per la pace con l'Austria e a un ancora più tenue filo nei suoi rapporti con il Direttorio francese, non avrebbe potuto permettersi il lusso di un lunghissimo assedio.
Il suo prestigio a Parigi, sostenuto in quella città da Augerau con un piccolo numero di soldati, era basato sulla fulmineità delle sue vittorie e l'abbondanza dei suoi bottini di guerra.

Se si fosse impelagato in una lunga e costosa guerra di posizione ai bordi della Laguna, i suoi avversari in Francia non avrebbero mancato di rilevare le sue scorrettezze e i suoi abusi di potere, minando gravemente le sue possibilità di sopravvivenza.

Non vi era dunque alcun pericolo veramente immediato per Venezia, e ogni veneziano non poteva non esserne consapevole. L'infantile piagnucolio del Doge e dei savj non poteva che essere una recita per alcuni, e l'effetto di una grave imbecillità per altri. Sulla quale imbecillità agì efficacemente la campagna di destabilizzazione psicologica e intimidazione messa in atto dai savi felloni.

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Mentre il Doge dava quel tristo spettacolo di sé, si accese un dibattito tra i savj attuali e quelli usciti sulla risposta da dare al Provveditore alle Lagune e Lidi.

Pietro Donà e Zan Antonio Ruzini volevano cedere e trattare la resa della città.

Al contrario i Savj di Terraferma, e in particolare il Savio alla Scrittura Iseppo Priuli e il N.H. Niccolò Erizzo secondo, detto Guido, ritenevano che si dovesse rispettare l'indirizzo di difendersi più volte espresso dal Senato.

Al Provveditore si rispose quindi con il Damò del 30 Aprile 1797.

Gli si commette di fermare i lavori e i movimenti francesi nella Laguna con ogni mezzo, sia l'uso della forza sia attraverso trattative che imponessero la cessazione di ogni lavoro e ogni ostilità fino a quando si fossero conclusi i colloqui dei due Deputati con Napoleone.

Secondo Tentori i savj felloni erano usciti sconfitti da questo primo tentativo di resa ma riuscirono a far approvare che una Parte fosse portata dal Doge in Maggior Consiglio per immediata votazione. Questa Parte, che era stata sin dall'inizio lo scopo principale dei felloni, intendeva affidare la resa della Repubblica ai Deputati Donà e Zustinian.
L'autorizzazione data a Condulmer di sparare, in tutta evidenza ormai, serviva a rendere più convincente la messa in scena di terrorismo psicologico, facendo sentire al Corpo Patrizio il cannone rombare cupamente a Fusina.

Prima che la parte fosse scritta intervenne una curiosa scena madre da parte del Francesco Pesaro, che con le lacrime agli occhi si mise a dire ad alta voce che vedeva la fine della sua Patria, e che a lui non restava che emigrare in Svizzera.

Si trattava probabilmente di un diversivo, volto a che la Conferenza, già caotica, si confondesse ulteriormente e lasciasse la stesura della parte interamente ai felloni e al Manin.

Infatti il Pesaro sì mostro ben presto consolato dalle attenzioni prestategli dal Savio agli Ordini Vettor Sandi e dal Segretario Camillo Cassina.
Da pagina 329:

... mostrò in apparenza di ricomporsi, e prendendo tabacco, rasserenatosi in volto si uni al N. H. Zaccaria Valaresso che di buon grado si era accinto a dettare la Parte.

La parte fu quindi letta e il Doge si assunse l'incarico di portarla in Maggior Consiglio, che fu convocato per la mattina seguente.

Così, il 30 Aprile 1797 "alle ore 7 della notte" si sciolse la seduta della Conferenza.3

Tentori ci proporrà il testo della Parte letta in Maggior Consiglio dal Doge più avanti, alla pagina 333, perché prima ci fornisce alcune altre informazioni sui fatti del 30 Aprile e sulle carte che erano state lette alla Conferenza.

Nel pomeriggio di quel 30 Aprile si erano sentiti molti colpi di cannone provenienti dalla zona di Fusina e su questi fatti giunse la relazione del Provveditore alle Lagune e Lidi, firmata Zuanne Zusto ma opera del Condulmer.

Nella breve nota informa di un primo attacco portato da soldati francesi sulla gronda, la cui descrizione è affidata all'acclusa relazione fatta dall'Alfiere Orsich del Reggimento Mitrovich, che Tentori riporta alle pagine 330 e 331.

  • Orsich era in terra con sei uomini a Fusina, per proteggere la ritirata delle truppe nella Laguna.
  • Verso le ore 22 3 comparvero sul ponte di Fusina quattro cavalleggeri francesi, uno dei quali sguainò la spada in segno di minaccia. Gli uomini di Orsich si erano portati su una barca, dalla quale tirarono qualche fucilata e i Francesi si ritirarono.
  • Con i suoi uomini e l'Alfiere Tibaldi, l'Orsich tornò a terra e riprese il fuoco, portandosi a sua volta sul ponte di Fusina.
  • I Francesi ricevettero ben presto ingenti rinforzi, uomini, carriaggi e artiglierie di vario calibro, con le quali presero a far fuoco a loro volta.
  • Ebbero pronta risposta dagli obici galleggianti veneziani. Lo sciabecco fece invece un solo tiro, come anche la "Cannoniera del Dalìa".
  • Orsich si era reimbarcato coi suoi uomini e si trovava a "mezzo tiro di fucile" quando si aprì il fuoco francese. Vide durare il combattimento finché fu giunto a San Giorgio in Alega, poi non sentì o vide altro.
  • Complessivamente i Francesi avevano effettuato una quarantina di tiri, tra i quali alcuni con cannoni da venti. Le obuserie venete hanno risposto con egual numero di colpi.
  • Orsich non sa se vi siano stati morti tra i Francesi, e non gli risulta ve ne siano stati tra i Veneziani.

Questa relazione fu una delle carte lette e discusse nella Conferenza, come si è detto.

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Mentre queste cose accadevano in Venezia, quello stesso 30 Aprile Donà e Zustinian spedivano un dispaccio da Udine. Lo indirizzarono al Senato ignorando che questo era stato sciolto dalla ignobile Conferenza.

  • Hanno ricevuto i due corrieri Marconi e Giupponi, il primo senza alcuna risposta da Buonaparte alla loro lettera del 26 e il secondo latore delle Ducali del 23.
  • Entrambi i corrieri sono stati fermati per un giorno vicino a Gorizia da un ufficiale francese che rifiutava loro i cavalli di posta. Affidano questo dispaccio al corriere Marconi.
  • Napoleone si sposta molto celermente. Non è andato a Bruch come aveva detto. È rimasto a Graz il 26 e nella serata è partito per Trieste, dove è giunto il 29. Nella notte di quel giorno egli è però atteso a Gorizia per passare subito a Palma.
  • I Deputati, incerti su quanto egli possa colà sostare, hanno deciso di portarsi a Palma immediatamente per attenderne l'arrivo.
  • Per Pontebba cominciano a sfilare le truppe di Joubert, che saranno seguite da quelle di Massena e di Augereau. Quelle di Bernardotte stanno per entrare in Palma.
  • I Deputati saranno accompagnati a Palma dal Luogotenente di Udine. Essi sperano in una meno ingrata accoglienza da Napoleone in virtù della simpatia per il Luogotenente stesso già dichiarata dal Generale.

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Arriviamo quindi alla riunione del Maggior Consiglio convocata il primo Maggio 1797.

Gli affossatori interni della Serenissima hanno allestito un impressionante apparato scenografico, atto a creare una atmosfera di intimidazione e pericolo irreale quanto efficace sui deboli spiriti che ormai presiedevano alle sorti repubblicane.
Da pagina 332:

Fu sorprendente e rumoroso l'apparato. Il Pubblico Palazzo attorniato da numerosi soldati con Cannoni puntati, e miccia accesa, una estraordinaria Guardia di Arsenalotti con arme da fuoco, tutto il corpo de' fedelissimi Bocchesi, intieramente armato, ed accampato, per così dire, al Portone del Monastero di S. Zaccaria, presagivano qualche funesto avvenimento.
Era perciò la Città tutta atterrita ed immersa nella maggior amarezza incerta della cagione d un tanto apparecchio di forze di cui non v'era esempio ne' Fasti della Repubblica.

Tentori avvisa che dimostrerà in seguito come questo apparato fosse opera dei "Corifei rivoluzionari", i quali volevano indurre nel Popolo e nel Corpo Patrizio l'"impudente menzogna" dell'esistenza in città di una fazione occulta pronta a ribellarsi al Governo.

La seduta del Maggior Consiglio fu aperta da un Lodovico Manin che. "squallido in viso e grondante di lagrime", tracciò il quadro della situazione. Quasi senza prendere fiato, soggiunse che si mostrava necessario autorizzare i due Deputati Donà e Zustinian a trattare con Buonaparte alcune modifiche all'attuale forma di governo della Repubblica.

La sua proposta fu appoggiata dal Consigliere Zuanne Minotto e dal Capo dei Quaranta, Pietro Bembo.

Nel cupo silenzio sceso sulla Gran Sala, il Manin lesse dunque la Parte preparata la notte precedente da Zaccaria Valaresso.
Il documento è molto breve, una quindicina di righe appena, che Tentori riporta alla pagina 333.

Vi si ricorda che Donà, Zustinian e il Luogotenente di Udine avevano già avuto mandato di trattare con Napoleone su basi molto ampie. Si trattava adesso di estendere quel mandato anche ad argomenti che sarebbero stati di competenza esclusiva del supremo organo della Repubblica, il Maggior Consiglio.

Non vi si specifica quali siano questi argomenti. La richiesta è così generica, o meglio generale, da configurarsi già come un atto di abdicazione del M.C. al Francese, attraverso le figure dei tre inviati alla trattativa. La cosa non è detta esplicitamente, anzi viene posta in una forma eufemistica:
Da pagina 333:

... l'autorità di questo Consiglio di autorizzarli ad estendere le loro Negoziazioni anche sopra argomenti dipendenti dalle sole Sovrane sue disposizioni, riservandosi di prestare ai risultati delle cose maneggiate li Supremi suoi definitivi assensi.

Una formula fatta per ingannare coscienze e intelligenze assopite, così come il periodo conclusivo della parte, in cui si chiede di autorizzare i Deputati a promettere a Napoleone il rilascio di tutti i detenuti per reato d'opinione.

La formulazione del documento è tale da poter facilmente indurre le menti deboli a pensare di aver sostanzialmente autorizzato solo l'ultima condizione dei prigionieri, a fronte della quale l'abdicazione del potere sovrano sembra quasi solo un corollario formale necessario.

La parte venne approvata dal Maggior Consiglio con 598 voti favorevoli, 14 non sinceri e sette contrari.

In quella stessa mattina del primo Maggio 1797 giunse la notizia che Francesco Pesaro aveva lasciato Venezia, abbandonando il suo incarico di Conferente con il Ministro Francese. 4

Il Doge e i suoi Consiglieri furono velocissimi nel sostituirgli quel mattino stesso il N.H. Pietro Donà, che il giorno innanzi abbiamo visto proporre la resa immediata della città ai Francesi di Fusina appoggiato dal noto "padre di tutte le nullità" Zan Antonio Ruzini.

Alla pagina 334 troviamo il primo Damò che incarica il Donà di incontrare Lallement, sempre in data primo Maggio 1797.

Le istruzioni sono estremamente vaghe, ma vi si accenna a "trattative ora nuovamente intavolate" in riferimento alle "prese deliberazioni del Maggior Consiglio".

Ovvero si da al Donà la facoltà stessa dei deputati a incontrare Napoleone, rassegnare l'abdicazione del Maggior Consiglio e l'accettazione di ogni ingerenza francese nel governo della Serenissima.

Ancora quel primo di Maggio si invia un nuovo Damò anche al Provveditore alle Lagune e Lidi.

È assai meno bellicoso del precedente.
Direi anzi che è logicamente e sintatticamente sconclusionato, soprattutto nella prima parte in cui sembra voler confermare le istruzioni di quello del giorno prima, unendole però con le "commissioni" rilasciate ai Deputati.
Solo che le istruzioni del Damò erano di combattere, quelle ai Deputati di arrendersi.
Si ordina dunque a tutti gli ufficiali di essere conformi, senza specificare a cosa.

Dal momento che le commissioni rilasciate ai Deputati sono gerarchicamente superiori agli ordini di un Damò, comprendendo quelle l'abdicazione della Signoria, si può immaginare come divenisse un grosso dilemma per gli ufficiali interpretare quest'ordine.
Soprattutto a fronte del fatto che assai probabilmente già circolava la voce che Napoleone aveva chiesto la testa del Pizzamano nonostante questi avesse agito in base a ordini assai più chiari ed espliciti...
Da pagina334:

E Damò: relativamente al Damò M.M. S. S. del giorno di jeri 30 Aprile caduto intorno le Operazioni delle Truppe Francesi, convenendo, che le commissioni alli N.N. H.H. Deputati, ed altre ispezionate Figure, e Capi da Mar alli Posti siano conformi a quelle rilasciate per le altre località dell Estuario col Damò suddetto...

Il dilemma si esaspera osservando come, nella seconda parte indirizzata ai difensori marittimi e portuali, si raccomanda ogni diplomazia per evitare l'ingresso in porto di legni armati, e non si ordina più di opporsi con le armi al fallimento di questa, ma solo di minacciare una risposta armata.
Da pagina334:

... e in caso di resistenza protesteranno la necessita nella quale sono di opponere la forza.

Non sfugge che "protestare la necessità di opponere" ha un significato ben diverso da "opporranno la forza".

Si tratta ora di informare i deputati Donà e Zustinian sull'ampliamento del loro mandato fino a offrire il trono di Venezia al Napoleone. Con la relativa Ducale sempre in data primo maggio 1797 si apre un nuovo lungo carteggio con i Deputati, che vedremo nella prossima pubblicazione.


Note

Nota 1 - Il Maggior Consiglio è forse l'organo più antico della Repubblica di Venezia. Più antico forse della stessa figura Ducale, in quanto trova riscontro nel suo senso e nelle sue funzioni sia nel Consilium Sapientes che fu affiancato al Doge sin dalle prime elezioni, sia in ben più arcaici e tribali consigli di sapienti o di anziani la cui origine, come quella della colonizzazione dal mare delle isole esterne della Laguna, si smarrisce nella notte dei tempi.
Da: Andrea da Mosto, "Organi Costituzionali e Principali Dignità dello Stato" (sta in "L'ARCHIVIO DI STATO DI VENEZIA INDICE GENERALE, STORICO, DESCRITTIVO ED ANALITICO Tomo I, pagine 30 e 31:

Il Maggior Consiglio si atteggiò sin dalle origini come l'organo supremo della Veneta Repubblica e svuotò di contenuto l'antica «concio», che aveva già perduto ogni importanza, prima ancora che, nel 1423, venisse formalmente soppressa.
I1 potere legislativo e quello esecutivo (per usare la terminologia moderna) gli sono riconosciuti senza contraddizione.
Ma trasformata la sua composizione con la Serrata, e divenuto non più un'assemblea dei più capaci, ma un corpo a cui si accedeva per privilegio di nascita, dovette delegare temporaneamente o perpetuamente le sue competenze ad altri organi più ristretti e più adatti alla funzione di governo, e principalmente al Senato.
Nei riguardi del potere legislativo restò sempre al Maggior Consiglio la suprema autorità, e — in fondo — le leggi più importati fino alla caduta della Repubblica vennero discusse o quanto meno riapprovate in Maggior Consiglio.

Dal comportamento dei Savj nei frangenti in esame penso che rispetto all'analisi esposta dal Da Mosto si deva evincere che il Maggior Consiglio era aveva mantenuto la prerogativa di essere l'unico organo competente in materia di legislazione interna e stuttura dello Stato.

Nota 2 - La proposta del Dolfin, pur priva di applicazione e di conseguenze, ci informa però di come Napoleone a Graz avesse mentito o fatto mentire ai Deputati in merito al ritiro di Haller da Venezia (vedi pubblicazione LIX).

Si tratta di quel tale Haller al quale Napoleone aveva affidato i suoi capitali, esigendo che la Zecca veneziana incrementasse la produzione di monete per favorirne i giochi finanziari, come abbiamo visto nella pubblicazione XLIV.

Haller non era, come presentato dal Dolfin, il Ministro francese delle Finanze, ma aveva con ogni probabilità la carica di Commissario nell'Armata Napoleonica. Aveva infatti svolto questo compito anche presso il Papa in occasione delle operazioni finanziarie connesse al Trattato di Tolentino (cfr. "Relazione delle avversita e patimenti del glorioso papa Pio 6..." di Mons. Pietro Baldassarri, Modena 1841.

Grazie ad alcune ricerche su Gallica, ho potuto identificare questo mai meglio specificato "Haller" con Emmanuel Haller, del quale quella biblioteca conserva una raccolta di lettere, scritte dal ruolo di Amministratore Generale delle Sussistenze dell'Armata Francese d'Italia a Nizza nel 1794.

Scoperto almeno uno dei nomi di battesimo, ho potuto trovare questa stringata biografia sul "Dizionario Storico della Svizzera".

Haller, Rudolf Emanuel von

  • Nascita 9.1.1747 Gottinga
  • Morte 1.11.1833 San Benedetto Po (Mantova)
  • Protestante
  • di Berna
  • Figlio di Albrecht e di Sophie Amalie Christine Teichmeyer. Fratello di Albrecht, fratellastro di Gottlieb Emanuel
  • Sposa nel 1773 ad Amsterdam Gerardine van der Dussen, di Delft nell'Olanda meridionale (divorzio nel 1782)
  • Risposa nel 1797 a Trieste Elisabeth Sophie Burdel, di Lione

Compì una formazione commerciale presso una banca ginevrina, lavorando in seguito nel campo della compravendita di titoli.
Nel 1777 fu assunto dalla banca parigina Necker, Girardot, Haller et Cie, di cui presto divenne socio; nel 1790 iniziò una nuova carriera in una banca di Marsiglia.
Dopo aver guadagnato una fortuna quale fornitore dell'esercito, nel 1794 si rifugiò a Genova e a Chiasso per sottrarsi a un procedimento penale.
Tesoriere dell'armata d'Italia franc. e direttore della zecca di Milano (1796), fu processato per appropriazione indebita dal tribunale di guerra e successivamente riabilitato.
Nel 1798 organizzò il saccheggio di Roma e il trasporto di oggetti d'arte italiana a Parigi; inoltre fu inviato del Direttorio elvetico presso la Repubblica Cisalpina a Milano (1798-99).
Stabilitosi a Losanna nel 1799, effettuò occasionalmente missioni diplomatiche informali per conto delle autorità durante la Repubblica elvetica e la Mediazione.
Nel 1816 si trasferì a Parigi, dove nel 1819 fondò una banca, fallita l'anno successivo.
Opportunista di dubbia fama, morì in povertà.

Qualche altra notizia si trova su: "Breve storia del consolato di Svizzera a Milano (1798-1945)" di Renata Broggini, dove si legge che l'Haller fu il primo rappresentante diplomatico svizzero a Milano:

Il posto di Milano è, con quello di Parigi, il più antico permanente della Svizzera, aperto dopo la creazione della Repubblica elvetica nel 1798. La rappresentanza diplomatica viene istituita nel luglio 1798, e a capo viene posto il commerciante e banchiere bernese Rudolf Emanuel von Haller (Göttingen 1747 – San Benedetto Po 1833), ministro presso la Repubblica cisalpina (1798-1802), in seguito presso la Repubblica italiana (1802-1805).

Nota 3 - In Venezia le ore si contavano a partire dal tramonto del Sole. Essendo alla fine di Aprile, il Sole tramontava attorno alle ore 20, quindi la Conferenza si sciolse circa alle ore tre del primo Maggio 1797, mentre l'attacco Francese a Fusina avvenne circa alle ore 18 del 30 Aprile.

Nota 4 - Viene il momento di dare uno sguardo a questa strana figura di Francesco Pesaro, prima feroce Saladino antifrancese, poi migliore amico del Lallement, poi fornitore a Napoleone di qualche milione di zecchini poi ancora (se dobbiamo dar credito a Tentori, che però aveva forse un debole per lui) difensore in extremis della Patria e infine vile disertore.

La voce che lo riguarda sul Dizionario Biografico Treccani, opera di Giuseppe Gullino è molto stringata e quantomeno imprecisa sul periodo che ci interessa, ma ci consente di trovare qualche notizia interessante.

Secondo Gullino i Pesaro, famiglia in origine ricchissima, erano andati incontro a condizioni finanziarie assai meno floride dopo la costruzione del loro imponente palazzo sul Canal Grande.
Francesco non aveva certo contribuito a migliorarle, affetto com'era dal vizio del gioco. Una situazione finanziaria incerta che lo accompagnerà per tutta la vita.

Questa caratteristica lo rende possibile candidato per la lista di coloro che figuravano sul libro paga di Berthier; del resto, Gullino stesso ce lo vuole descrivere come carattere leggero e impulsivo.

Nonostante questi lati poco affidabili, egli fu spesso incaricato di magistrature connesse con la finanza, la Zecca a i Banchi.

Ebbe vari incarichi di rappresentanza presso i Borboni e Casa d'Austria, e questo potrebbe inserirlo anche nella lista di coloro che, come il Manin, si aspettavano presumibilmente una gratitudine da quella parte una volta abbattuta la Repubblica.

Questa ultima condizione troverebbe conferma nel fatto che, quando disertò, il Pesaro non fuggì affatto in Svizzera, come aveva platealmente dichiarato alla Conferenza ma a Vienna dove, ancora secondo il Gullino, godeva nientemeno che della protezione del Barone Thugut, Ministro della Guerra Austriaco ma anche, come sappiamo, agente doppiogiochista francese (cfr. Nota 2 a pubblicazione XXII).

Contrariamente al Manin, Pesaro accettò nel 1799 i pur magri sensi di quella gratitudine imperiale, sotto forma di un incarico come funzionario preposto alla riorganizzazione amministrativa delle province venete. Ma non ebbe tempo di goderne a lungo. Tornato a Venezia per prendervi servizio il 3 Febbraio 1799, vi morì il 25 Marzo di quello stesso anno a causa di una infezione polmonare.

Resta da chiedersi il perché della sua diserzione. Poteva forse temere i Francesi? Certamente no, dati i suoi legami di amicizia con Lallement e quelli ancor più importanti con Thugut. Il suo rapporto con Napoleone era stato del resto cordiale ed estremamente proficuo per quest'ultimo.

Dunque da chi fuggiva il Pesaro?

Dal popolo veneziano, dal timore che i suoi maneggi con Lallement non fossero passati inosservati, dalla paura e forse anche dalla speranza che il Popolo avrebbe in extremis salvato ancora una volta la millenaria Repubblica.
Se ciò fosse avvenuto, alla sua coscienza dovette apparire chiaro che la sua sorte come traditore era certa.

In ultima analisi, come già accennavo nella Nota 1 alla pubblicazione precedente, il Pesaro può riassumere in sé l'intero o quasi spettro delle fazioni antirepubblicane. La sua vicinanza a Thugut suggerisce che fosse messo al corrente almeno in parte degli obiettivi dell'alta regia. Il denaro di Berthier e forse una certa percentuale dei beni che procurava a Napoleone furono un argent de poche per tirare avanti in attesa che la casa d'Austria mantenesse promesse ben più significative.

Rimangono ipotesi ma con fondamenti, come vediamo, tutt'altro che trascurabili.


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