Storia di Venezia

Pagina pubblicata 22 Novembre 2011

Citazioni sulla Repubblica di Venezia
dalla Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, 1534

Citazioni || Rettifiche alla figura di Guicciardini || Venezia in "Del Reggimento di Firenze"

   

La Storia di Venezia raccontata nella "Storia d'Italia"

Nelle "Rettifiche alla figura di Guicciardini" abbiamo restituito al pensatore fiorentino la statura morale, politica e storica che gli è dovuta, snebbiandola dai fumi di falso e maleodorante incenso con cui è presentata nelle scuole ancora ai giorni nostri. I libri di testo e le opere divulgative relativi alla Storia, infatti, sono a tutt'oggi impostati sui preconcetti e le distorsioni che le monarchie dinastiche della Restaurazione fecero diffondere agli illuministi post-napoleonici.

Mentre svolgeva con onore e fedeltà gli incarichi di estrema importanza affidatigli dal Popolo o dal Monarca, Francesco Guicciardini fu sempre accurato descrittore degli eventi e delle loro cause.

Assolse questa sua azione di "volontariato" storico principalmente nei venti libri della "Storia d'Italia", che coprono un periodo di circa quarant'anni. La stesura presenta tale precisione e dovizia di particolari da essere una cronaca, lo straordinario "spaccato" dell'Europa negli anni tra il 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) e il 1534 (morte di papa Clemente VII).

Guicciardini descrive con minuzia, quasi giorno per giorno, l'inviluppo caotico di alleanze, tradimenti, invasioni, battaglie, guarnigioni e intrighi che caratterizza i suoi tempi. Lo fà da un punto di vista altamente privilegiato rispetto alle fonti, perché sin da giovanissimo ricopre incarichi pubblici di grande responsabilità e rilievo, ed è quindi testimone oculare e spesso agente lui stesso di quello che racconta.

In tale sua fatica dette grande prova di competenza, coerenza e pertinenza. Guicciardini tiene infatti il racconto storico a un livello di imparzialità tale, da risultare impersonale anche in quei gravi eventi storici che lo videro protagonista in prima persona.

Storia di Venezia - Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, Firenze 1561

Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, stampato a Firenze nel 1561 (image courtesy of www.leg.it).

Oltre che osservatore diretto, fu sempre molto attento alle fonti, che identificava negli archivi delle varie Magistrature con cui ebbe modo di entrare in contatto. Grazie ai ruoli diplomatici e politici di altissimo livello che ricoprì in tutto l'arco della sua vita adulta, pressocché nulla dei carteggi internazionali di cui furono a parte i Pontefici fu segreto al Guicciardini.

La critica denigratoria, De Sanctis in testa, volle legare la purezza storica del Nostro all'immagine macabra del cadavere sul tavolo anatomico. È un immagine che, se da un lato mira a rendere poco appetibile la lettura dei testi originali, dall'altro conferma che la "Storia d'Italia", racconta la Storia così come essa avviene, senza intendimenti o filtri imposti dalla demagogia dei vincitori. Daru, Hugo, De Sanctis e i loro simili sono invece impregnati dell'opinione che la Storia debba soggiacere alle basse passioni umane e che la si possa impunemente alterare nella memoria collettiva.

Questo malcostume si radica nella mancata consapevolezza dell'antico assioma politico "Historia Magistra Vitae"(1) e si traduce oggi, dopo ormai due secoli di sempre più generale allontanamento da quello e altri principi della Politica e del Buon Governo, nelle catastrofi di ogni tipo che si abbattono sull'Umanità.

L'argomento è stato approfondito in "Storia Morale di Venezia" e "Strategia di Lavoro per la Repubblica". Per sancirne qui l'importanza, tale da evidenziare lo stretto legame tra una corretta visione della Storia e l'andamento delle cose attuali, sarà sufficiente ricordare tre punti fermi.
Primo che l'uomo, proprio a partire dal generale affermarsi al potere dell'immoralità storica dall'Ottocento in poi, si è reso direttamente responsabile, per incuria e malgoverno del territorio, di sterminate deforestazioni, dell'estinzione di innumerevoli specie animali e vegetali e di catastrofi idrogeologiche a catena.
Secondo, che tali sconvolgimenti hanno prodotto come effetto evidente lo scioglimento delle nevi perenni, che corrisponde alla perdita quasi totale delle riserve secche di acqua dolce disponibili sul pianeta.
Terzo, che attualmente vi sono almeno tre centrali nucleari fuori controllo, il cui impatto sull'umanità e sull'abitabilità del pianeta Terra nel suo complesso è non solo incontrollabile ma anche imprevedibile.

Un uomo senza Storia, o peggio con una storia adulterata dalla fantasia malata e dall'opportunismo di alcuni, non sà gestire un Dominio sul Territorio e si informa soltanto ai propri smodati desideri di possesso, alla sete inestinguibile non di conoscenza ma di consumo. Conto di esprimere meglio l'importanza dell'informazione storica per il Governo delle Civiltà, nella nota "Perché Guicciardini?" che concluderà questo ciclo di pubblicazioni.

Torniamo quindi alla "Storia d'Italia": non sono cadaveri gli "oggetti" che Guicciardini tocca ed esamina nella sua osservazione asettica: sono eventi drammatici e tragici, storie d'uomini e di belve umane palpitanti e fumiganti.

Storia di Venezia - Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, Venezia 1580

Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini stampato a Venezia nel 1580 (image courtesy of www.comune.firenze.it).

L'occhio memore e compassionevole di Francesco Guicciardini trascorre su vite ed eventi del suo tempo, simile a una cinepresa nella fedeltà di registrazione ma profondamente umano nella fede cristiana che ispira il suo intelletto repubblicano.

Non sono poche infatti le passioni che Guicciardini coltiva con coraggio e intelligenza. Passioni pure, neoplatoniche, non certo i rivolgimenti viscerali nel vizio che saranno il cavallo da battaglia della letteratura popolare dall'Ottocento in poi.

Sono precisamente quelle passioni che De Sanctis esplicitamente gli vuol negare, ovvero le passioni per gli Ideali. Passioni che furono invece abiurate dal De Sanctis stesso, per il piatto di lenticchie di una cattedra nelle scuole monarchiche e in quelle illuministe.

Abbiamo visto nelle Rettifiche alla figura del Guicciardini e ancora vedremo affiorare in queste citazioni dalla "Storia d'Italia", che le passioni coltivate dal Nostro si chiamano Amor di Patria, Amore per la Pace, le Arti e il Bello, Culto del Buon Governo e della Libertà, Fedeltà allo Stato e all'Onore(2)...

Ancora, più specificamente riguardo alle doti necessarie a uno storico, fedeltà al vero e sincerità spinta dove necessario fino alla crudezza, limpidità di giudizio e trasparenza delle fonti. Doti che ne fecero il Padre della Storiografia moderna universalmente riconosciuto ben da prima della razzia napoleonico-illuminista.

Può essere indicativo ricordare che la "Storia d'Italia" viene pubblicata sin dagli anni immediatamente seguenti la stesura, in moltissime edizioni e tradotta nelle principali lingue europee.

Le foto che vediamo sono solo un minimo segno dell'interesse continuato e impegnativo degli stampatori verso un libro che ha avuto costante diffusione nei secoli e che ancora oggi riscuote il plauso sincero di ogni Storico.

Per le sue passioni Ideali Guicciardini non esita a mettersi a repentaglio, come un qualsiasi "eroe" romantico, ma ben altra portata civile e umana hanno i suoi motivi ispiratori rispetto alle basse passioni istintuali evocate e mistificate dalle torbide atmosfere del Romanticismo deteriore.

Il Nostro combatte la sua epopea sia con l'azione teorica sia assumendosi incarichi di comando e di organizzazione dello Stato tanto in Repubblica che in Signoria, ma non lo fa per gelosia, orgoglio infame, invidia, avidità o superbia.
Egli è mosso dall'amore di Cristo per le sue Creature, e serve la società civile e repubblicana con la spada a doppio taglio dell'osservazione profondamente intelligente unita al coraggio nelle decisioni morali. Ben lungi dall'immagine di opportunista che De Sanctis gli volle appiccicare, troviamo in Guicciardini la testimonianza viva di una vita spesa nello spirito di servizio.

Che questa sia la chiave principale di lettura del Guicciardini Storico e Statista lo conferma la frase conclusiva dell'Opera, vera e propria "morale della Storia" e della Civiltà, portata forse alla sua massima sintesi nel campo dell'Etica:
"Perché è verissimo e degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto il valore di chi lo esercita.".

Plenipotenziario del Papa, Guicciardini ha il coraggio di scrivere le crude descrizioni di pontefici che troviamo nella "Storia d'Italia" e che sono evidenziate nelle Rettifiche. Né gli manca il prestigio per sostenere queste sue opinioni senza rendersi inviso ai suoi superiori, a volte il pontefice stesso.
Sono le sue nobili passioni e la sincerità con cui le esprime che, al contrario, gli procurano la completa fiducia dei governanti.

In un mondo di intrighi come quello monarchico-pontificio l'uomo leale e affidabile, con il cuore e la mente legati all'interesse della Nazione, è valutato prezioso anche e soprattutto da chi è troppo assorbito dalle trame di potere per occuparsi dello Stato e del proprio onore(3).

Se le passioni di Guicciardini furono essenzialmente di ordine metafisico, e quindi non condivisibili da persone moralmente malformate come il De Sanctis, dobbiamo dire che egli trovò modo di concretarle in un esempio nel mondo materiale, e almeno questo non sarebbe dovuto sfuggire alla grettezza dell'illustre critico.

L'algido Guicciardini infatti coltiva anche una passione terrena, una ammirazione che si concretizza nella Repubblica di Venezia.

All'ammirazione per la Serenissima egli dà libera voce nel dialogo "Del Reggimento di Firenze".
È un'opera ideologica che, pur fondata solidamente sulla Storia, non si pone con gli obblighi di una cronaca ed espone la libertà espressiva del Letterato, il coraggio del Pensatore e l'immaginazione creativa dell'Artista.
Nel Dialogo Guicciardini tesse infatti una vera e propria apologia del sistema di governo repubblicano di Venezia.

La concreta passione per Venezia traspare del resto anche nell'Opera storica del Guicciardini.

I "viniziani" compaiono con frequenza impressionante nelle cronache e nelle analisi politiche che pubblica con la "Storia d'Italia".

Si dirà che ciò è inevitabile, dal momento che nel tempo raccontato dal Guicciardini la Repubblica di Venezia è da secoli protagonista centrale dello scenario, unica Repubblica consolidata a livello di Potenza mondiale, in grado di reggere gli assalti e gli intrighi delle monarchie variamente tra loro coalizzate.

Tuttavia è profondamente diverso l'atteggiamento con cui Guicciardini affronta le scelte veneziane e il tono con cui descrive gli atti delle altre Potenze, incluse quelle in cui si è trovato lui stesso a ricoprire ruoli decisionali.

Storia di Venezia - Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, Venezia 1583

Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, stampato a Venezia nel 1583 (image courtesy of Wikimedia Commons).

Il tempo che descrive consente a Guicciardini di far combaciare la sua passione con l'etica della verità storica. Almeno fino alla sconfitta della Lega di Cambrai, infatti, Venezia è ancora pienamente degna di rappresentare in terra l'Ideale dello Stato. Guicciardini non cessa dunque di additarla come esempio da imitare per la saggezza delle sue Istituzioni e per la plurisecolare concordia generata dal Buon Governo.

I suoi Senatori sono descritti come uomini sapienti e saggi, e meritano che La "Storia d'Italia" citi per intero ben otto loro discorsi. A chi si prenda la briga di leggere anche solo quello del Doge Leonardo Loredan per incitare alla difesa estrema di Padova, apparirà chiaro quanto Guicciardini si identifichi nei valori su cui il Loredan fà leva.

Comprendere questa visione, realistica e ideale al tempo stesso, del nostro Autore e del suo rapporto con la Repubblica, comporta una consapevolezza nuova rispetto a quella che alcuni avranno ricevuto sui banchi di scuola: in questa nuova luce dobbiamo leggere e interiorizzare la portata storica e patriottica(4) delle citazioni relative a Venezia nella "Storia d'Italia".

L'imago mundi proiettata dalla Storia d'Italia vede interminabili conflitti interni a ciascuno Stato o Regno che generano inaffidabilità e instabilità nei rapporti fra le Nazioni.

Dalla lettura si apprende che la causa principale della continua belligeranza, sul suolo italico e non solo, fu la scostumatezza dei monarchi dinastici, incluso con particolare menzione il Papa re di Roma.

Venezia è l'unica eccezione in questo desolante panorama, dove persino i papi chiamano mercenari stranieri in Italia.
Se pur discute al suo interno sul da farsi, la Serenissima si presenta sempre al mondo nella medesima persona del suo Senato, con richieste di pace e di libero commercio.

Come vedremo, Guicciardini segue con particolare attenzione le vicende di questa Repubblica costretta a navigare nelle acque infide e pericolosissime di interlocutori privi di ogni scupolo morale e sempre scarsamente dotati di intelligenza cristiana: nella cronaca Venezia difende il Bene Comune e la Libertà, dove i monarchi cercano invece di saziare i propri vizi.

Non vedremo infatti mai, nella "Storia d'Italia", Venezia essere promotrice di guerre. Essa figura sempre tirata alle armi dall'una e dall'altra parte guerrafondaia, sempre ricattata col timore di vedere tutte le altre Potenze allearsi invece contro di lei.

Storia di Venezia - Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini, Venezia 1590

Frontespizio del primo volume della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini stampato a Venezia nel 1590 (image courtesy of www.cde-bagnoaripoli.it).

Tra le ragioni che mi hanno spinto a questo lavoro storico sul Guicciardini è la congruenza della sua cronaca testimoniale diretta con la teoria sul decadimento, che ho enunciato in "Storia Morale di Venezia" desumendola dalla lettura delle Opere d'Arte. Chi ha avuto la pazienza di leggere quel mio libro ricorderà che in esso si colloca il punto decisivo di svolta al tempo di Tiziano, che è precisamente il tempo del Guicciardini.

I due Autori nascono a pochissimi anni di distanza l'uno dall'altro, Guicciardini ha qualche anno in più, ma l'ultralongevo Tiziano morirà oltre trent'anni dopo di lui (5).

Mentre il pittore abbandona la trama luminosa per dipingere nell'opacità della materia, Guicciardini costernato annota le delusioni che deve subire dagli uomini che incarnano la sua Musa repubblicana.

Con il Libro XIII ovvero con la conclusione delle guerre succedute alla Lega di Cambrai, il Nostro trova sempre meno motivi per elogiare i "viniziani" nelle annotazioni della Storia che osserva e descrive.
Dopo l'impennata ideale con il discorso di Enrico Dandolo, e nonostante la limpida vittoria che quello aveva portato, la paura, prodotta dai vizi che sempre più si diffondono in città, piega la generosa purezza veneziana.

Guicciardini aveva ben visto un tempo in cui Venezia trionfava con la sola forza delle sue Virtù.
Egli ha ben descritto come la Serenissima non cercasse altro Dominio che il mare, e che il suo impegno militare in Terraferma non fu mai imputabile a una volontà intrinseca di espansionismo territoriale per il bieco fine del procurarsi nuove risorse. Volontà che abbiamo visto invece essere movente principale delle guerre raccontate nella "Storia d'Italia".
Venezia aveva guerreggiato e vinto sotto i suoi stessi occhi, ma sempre costretta dalla difesa di sé o dell'idea Repubblicana di Popoli fratelli

Dopo Cambrai alla sua acuta osservazione non sfugge il mutamento. L'intelligenza coraggiosa del Senato Veneto sempre più si vena di volgare opportunismo, di codardia astuta e servile portata al sommo dell'arte diplomatica e temporeggiatrice. Al rafforzamento interiore e morale sempre più si sostituisce la pratica di contare più sulle debolezze altrui che sulla propria forza.

Dimentichi della loro più antica e saggia prudenza, i "viniziani" trascurano il mare per cogestire i conflitti altrui in Terraferma. Al solo fine di proteggere il proprio corpo continentale non esitano a ingaggiare mercenari purché questi combattano lontano dei Territori che la Repubblica considera propri. Vede ancora Guicciardini Venezia trattare come merce di scambio città che le si erano votate.

Egli comincia a manifestare le sue critiche, forse a torto, già nel sesto Capitolo del Libro VIII, in occasione del saccheggio portato alle rive lagunari dalle monarchie dinastiche coalizzate in Cambrai.

Sarei stato incline a velare di generosità la Repubblica che, nel profondo della disfatta, libera gli alleati da ogni obbligo di difesa. Questa mia tesi era e in parte è supportata dalla risposta di quegli alleati, che nel caso di Treviso e Padova fu eroicamente repubblicana. Come eroica fu quella di Bellunesi e Veronesi molti secoli dopo, nell'era tragica della caduta.

Devo però annotare che Guicciardini invece già in quella azione scorse il germe della debolezza, e accusa infatti la sua Musa infedele di aver abbandonato quelle città all'arbitrio dei Popoli.

"Dalle quali ragioni mossi, dimenticata la generosità viniziana, e lo splendore di tanto gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l'acque salse, commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de' popoli se ne partissino.".

Popolo e Repubblica non sono infatti un ente monolitico indissolubile, nella visione del Guicciardini. La Repubblica è piuttosto lo strumento con cui i migliori e più valenti Cittadini, a turno, organizzano la vita comune. Quando il Popolo perda di vista questa gerarchia e cessi di riconoscere i migliori per farsene governare, ogni catastrofe è alle porte per l'intera comunità. Non vi può essere quindi vera generosità agli occhi del Nostro, in chi abbandona la lotta eroica per la meschina paura di soccombere.

Storia di Venezia - Stemma dei Guicciardini in Borgo Santo Spirito a Firenze

Stemma dei Guicciardini in Borgo Santo Spirito a Firenze (image courtesy of Wikimedia Commons).

A conferma della sua diagnosi precoce il Guicciardini negli anni a seguire la riscossa dovrà rimarcare la fama di altezzosità che comincia a offuscare l'antica gloria dei "viniziani".
Giungerà in prima persona a sconfiggere in armi i Veneziani che, alleati ai Francesi, insidiavano la città di cui era rispettato e carismatico governatore. Sempre meno si vedrà descrivere gesta militari di un eroico cavaliere guerriero, sostituite dal maneggio di astuzie diplomatiche nelle turbolenze europee.

Che questa non fosse la strada da imboccare lo indica Guicciardini e lo conferma ai nostri occhi la Storia dei Secoli successivi.

Umberto Sartori

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Citazioni di Venezia nella Storia d'Italia di Francesco Guicciardini

Edizioni di riferimento:
http://www.filosofico.net/guicci1ardinistoriadital1iaia1.htm (testo continuo) | http://digilander.libero.it/il_guicciardini/guicciardini_storia_d_italia_libro_primo.html (diviso in Libri)

Storia di Venezia - Studio di Francesco Guicciardini Storia di Venezia - Libreria di Francesco Guicciardini

Lo studio in Palazzo Guicciardini a Firenze. Sul tavolo ottagonale che si vede parzialmente in primo piano nella foto a sinistra, Francesco avrebbe scritto gran parte della "Storia d'Italia" (image courtesy of beatingausterity.blogspot.com).

Libro I

dal Capitolo VI

Venezia baluardo contro l'Impero Ottomano e pacifista in Europa

"Così dividendosi tutti gli altri potentati italiani, quali in favore del re di Francia quali in contrario, soli i viniziani deliberavano, standosi neutrali, aspettare oziosamente l'esito di queste cose; o perché non fusse loro molesto che Italia si perturbasse, sperando per le guerre lunghe degli altri potersi ampliare l'imperio veneto, o perché, non temendo per la grandezza loro dovere essere facilmente preda del vincitore, giudicassino imprudente consiglio il fare proprie senza evidente necessità le guerre d'altri: benché e Ferdinando non cessasse continuamente di stimolargli e che il re di Francia, l'anno dinanzi e in questo tempo medesimo, v'avesse mandato imbasciadori, i quali avevano esposto che tra la casa di Francia e quella republica non era stata altro che amicizia e benivolenza e da ogni banda amorevoli e benigni uffici, dove fusse stata l'occasione; la quale disposizione il re desideroso di augumentare, pregava quello sapientissimo senato che all'impresa sua volesse dare consiglio e favore.

Alla quale esposizione avevano prudente e brevemente risposto: quel re cristianissimo essere re di tanta sapienza e avere appresso a sé tanto grave e maturo consiglio, che troppo presumerebbe di se medesimo chiunque ardisse consigliarlo; soggiugnendo che al senato viniziano sarebbono gratissime tutte le sue prosperità, per l'osservanza avuta sempre a quella corona: e perciò essergli molestissimo di non potere co' fatti corrispondere alla prontezza dell'animo, perché per il sospetto nel quale gli teneva continuamente il gran turco, che aveva cupidità e opportunità grandissima di offendergli, la necessità gli costrigneva a tenere sempre guardate con grandissima spesa tante isole e tante terre marittime vicine a lui, e ad astenersi sopratutto da implicarsi in guerre con altri".

Libro III

dal Capitolo I

Venezia difensore d'Italia

"La ritornata poco onorata del re di Francia di là da' monti, benché proceduta più da imprudenza o da disordini che da debolezza di forze o da timore, lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre che Italia, percossa da infortunio tanto grave, avesse presto a rimanere del tutto libera dallo imperio insolente de' franzesi; onde risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del duca di Milano che, prese l'armi, con savia e animosa deliberazione, avessino vietato che sì preclara parte del mondo non cadesse in servitù di forestieri: ...".

dal Capitolo IV

Venezia accorre in soccorso di Pisa che si proclama Repubblica

"I pisani, entrati nella cittadella, la distrusseno subito popolarmente insino da' fondamenti; e conoscendo di non avere forze sufficienti a difendersi per se stessi, mandorono in un tempo medesimo imbasciadori al papa al re de' romani a' viniziani al duca di Milano a' genovesi a' sanesi e a' lucchesi, dimandando soccorso da tutti, ma con maggiore instanza da' viniziani e dal duca di Milano; nel quale aveano avuto prima inclinazione di trasferire liberamente il dominio di quella città, ...
...
Ma accadde presto che il duca, alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere con simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse pervenire in lui il dominio di Pisa, cominciando a somministrare parcamente le cose che dimandavano i pisani, dette loro occasione di inclinare più l'animo a' viniziani, i quali senza risparmio alcuno gli provedevano.
Onde procedette che, non molti mesi poi che i franzesi avevano lasciata la cittadella, il senato viniziano, pregatone con somma instanza da' pisani, deliberò di accettare la città di Pisa in protezione, ...".

dal Capitolo VIII

Generosità dell'aiuto veneziano a Pisa

"Erano state per qualche mese potenti le forze de' pisani, perché oltre agli uomini della terra e del contado, diventati già per lungo uso bellicosi, v'avevano i viniziani e il duca di Milano molti cavalli e fanti; benché assai più numero fussino quegli de' viniziani.
Cominciorono poi a diminuirsi, per non avere i debiti pagamenti, le genti tenutevi dal duca; e però i viniziani vi mandorono di nuovo cento uomini d'arme e sei galee sottili con provisione di frumenti, non perdonando a spesa alcuna necessaria alla sicurtà di quella città ...".

dal Capitolo IX

Gratitudine dei Pisani per la città che protegge il loro anelito di libertà

"Ma in questo tempo i viniziani, per non lasciare a Cesare o al duca di Milano facoltà di occupare Pisa, vi mandorono di nuovo, con consentimento de' pisani, Annibale Bentivoglio loro condottiere con cento cinquanta uomini d'arme, e poco poi nuovi stradiotti e mille fanti; significando al duca avervegli mandati perché la loro republica, amatrice delle città libere, voleva aiutare i pisani alla recuperazione del contado loro: con l'aiuto delle quali genti i pisani finirono di recuperare quasi tutte le castella delle colline. Per i quali benefici e per la prontezza de' viniziani nelle dimande loro che erano molte, ora di gente ora di danari ora di vettovaglie e di munizioni, era la volontà de' pisani diventata tanto conforme a quella de' viniziani che, trasportata in essi quella confidenza e amore che e' solevano avere nel duca di Milano, desideravano sommamente che quel senato continuasse nella difesa loro ...".

dal Capitolo XIV

Onore ai Veneziani, leali e disinteressati difensori del suolo italico dagli invasori stranieri, traditi dal Duca di Milano e dagli altri confederati

"Trattarsi in questa restituzione dell'onore e della fede di tutti ma principalmente della loro republica; perché avendo i confederati promesso tutti d'accordo a' pisani d'aiutargli a difendere la libertà e di poi, perché ciascuno degli altri spendeva malvolentieri per il bene publico, lasciato il peso a loro soli, né essi ricusato a questo effetto alcuna spesa o travaglio, essere con troppo loro disonore l'abbandonarla, e mancare della fede data, la quale se gli altri non stimavano, essi, soliti sempre a osservarla non volevano in modo alcuno violare.

Essere molestissimo al senato viniziano che, senza rispetto alcuno, fussino imputati dagli altri di quello che con consentimento comune avevano cominciato e per interesse comune avevano continuato, e che con tanta ingratitudine fussino lapidati delle buone opere; né meritare questa retribuzione le spese intollerabili che avevano fatte in questa impresa e in tante altre, e tanti travagli e pericoli sostenuti da loro dappoi che era stata fatta la lega: le quali cose erano state di natura che e' potevano arditamente dire che per opera loro si fusse salvata Italia, perché né in sul fiume del Taro si era combattuto con altre armi, né con altre armi recuperato il reame di Napoli, che con le loro.

E quale esercito avere costretto Novara ad arrendersi? quale avere necessitato il re di Francia ad andarsene di là da' monti? quali forze essersegli opposte nel Piemonte, qualunque volta avea fatto pruova di ritornare? Né si potere già negare che queste azioni non fussino principalmente procedute dal desiderio che avevano della salute d'Italia, perché né erano mai stati i primi esposti a' pericoli, né per cagione loro nati disordini i quali fussino debitori di ricorreggere: perché né aveano chiamato il re di Francia in Italia né accompagnatolo poi che era stato condotto di qua da' monti, né per risparmiare i danari propri lasciato cadere in pericolo le cose comuni; anzi essere stato spesse volte di bisogno che 'l senato veneto rimediasse a' disordini nati per colpa d'altri in detrimento di tutti.

Le quali opere se non erano conosciute o se sì presto erano poste in oblivione, non volere perciò, seguitando l'esempio poco scusabile degli altri, maculare né la fede né la degnità della loro republica; essendo massime congiunta nella conservazione della libertà de' pisani la sicurtà e il beneficio di tutta Italia.".

Libro IV

dal Capitolo VI

Citazione dal discorso di Antonio Grimanno al Senato Veneto

"... perché le deliberazioni delle republiche non ricercano rispetti abietti e privati, né che tutte le cose si riferischino all'utilità, ma fini eccelsi e magnanimi per i quali si augumenti lo splendore loro e si conservi la riputazione, ...".

Vedi il testo integrale dei discorsi di Antonio Grimanno e Marchionne Trivisano al Senato Veneto.

dal Capitolo XII

Elogio dei metodi di giudizio del Senato Veneto

"Finalmente, parendo che fusse per prevalere la causa sua, o per l'autorità dell'uomo e moltitudine de' parenti o perché in quello consiglio, nel quale intervengono molti uomini prudenti, non si considerassino tanto i romori publici e le calunnie non bene provate quanto si desiderasse di intendere maturamente la verità della cosa ...".

Libro V

dal Capitolo XI

Assennatezza del Senato Veneto nel protestare presso il re di Francia per il comportamento del Duca Valentino nei confronti di Venezia

"... insino a' viniziani, cominciava a essere sospetta tanta prosperità del duca Valentino; sdegnati eziandio che pochi mesi innanzi, dimostrando essere in piccola estimazione appresso a lui l'autorità di quel senato, aveva fatto rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano generale delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col marito, passava per la Romagna.

Però, per dare causa al re di procedere più moderatamente a' suoi favori, dimostrando di muoversi come amici e gelosi dell'onore suo, gli ricordorono per gli oratori loro, con parole degne della gravità di tanta republica, che considerasse di quanto carico gli fusse il dare tanto favore al Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa di Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire uno tiranno tale, distruttore de' popoli e delle provincie e sitibondo sì immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il mondo di orribile immanità e perfidia; dal quale, come da publico ladrone, erano stati ammazzati sì crudelmente sotto la fede tanti nobili e signori, e che non si astenendo ancora dal sangue de' fratelli e de' congiunti, ora con ferro ora con veleno, avesse incrudelito nelle età miserabili eziandio alla barbarie de' turchi.".

Libro VI

dal Capitolo VIII

Pace fra Venezia e il Turco illuminato: quando la luce coranica si afferma nel travagliato e feroce mondo islamico, Venezia è pronta al perdono e alla collaborazione.

"Nell'anno medesimo che queste cose tanto gravi in Italia succederono si fece la pace tra Baiseth otomanno e i viniziani, la quale da ciascuna delle parti fu abbracciata cupidamente. Perché Baiseth, principe di ingegno mansueto e molto dissimile alla ferocia del padre, e dedito alle lettere e agli studi de' libri sacri della sua religione, aveva per natura l'animo alienissimo dalle armi ...".

Libro VII

dal Capitolo III

Massimiliano ricerca l'alleanza o la neutralità della Repubblica di Venezia

"... Massimiliano, il quale, avendo rotto guerra al re d'Ungheria, aveva allentato il pensiere di passare in Italia, si pacificò di nuovo con lui, rinnovato il patto della successione: e ritornò in Austria, facendo segni e apparati che dimostravano volesse passare in Italia.
Alla quale cosa desiderando di non avere avversi i viniziani, mandò a Vinegia quattro oratori a significare la deliberazione sua di andare a Roma per la corona dello imperio; ricercandogli concedessino il passo a lui e al suo esercito, offerendosi parato ad assicurargli di non dare allo stato loro molestia alcuna, anzi desiderare di unirsi con quella republica, potendosi facilmente trovare modo di unione, che sarebbe non solo con sicurtà ma eziandio con augumento ed esaltazione dell'una parte e dell'altra: volendo tacitamente inferire che e' sarebbe utilità comune il congiugnersi insieme contro al re di Francia.

Alla quale esposizione, dopo lunga consulta, fu fatto risposta con gratissime parole: dimostrando quanto era grande il desiderio del senato viniziano di accostarsi alla volontà sua, e sodisfargli in tutte le cose che potessino senza grave loro pregiudicio; il quale in questo caso non poteva essere né maggiore né più evidente, conciossiaché Italia tutta, disperata per tante calamità che aveva sopportate, stava molto sollevata al nome della passata sua con esercito potente, con intenzione di pigliare l'armi per non lasciare aprire la via a nuovi travagli; e il medesimo era per fare il re di Francia per assicurare lo stato di Milano.

Dunque, il venire egli con esercito armato in Italia non essere altro che cercare potentissima, opposizione, e con grandissimo pericolo loro; contro a' quali si conciterebbe tutta Italia, insieme con quel re, se gli consentissino il passo, come se agl'interessi propri avessino posposto il beneficio comune.

Essere molto più sicuro per tutti, e alla fine più onorevole per lui, venendo a uno atto pacifico e favorevole appresso a ciascuno, passare in Italia disarmato; dove, dimostrando non meno benigna che potente la maestà dello imperio, arebbe grandissimo favore da ciascuno, sarebbe con somma gloria conservatore della tranquillità d'Italia, andando a incoronarsi in quel modo che innanzi a lui era andato a incoronarsi il padre suo e molti altri de' suoi predecessori; e in tal caso il senato viniziano farebbe verso di lui tutte quelle dimostrazioni e officii che egli medesimo sapesse desiderare.".

dal Capitolo X

Ricatti incrociati delle Monarchie all'indole pacifista della Repubblica di Venezia

"Nelle quali agitazioni e apparati non era minore perplessità nelle menti del senato viniziano che negli altri, e per essere di grandissimo momento la loro deliberazione, grandissime erano le diligenze e l'opere che si facevano da ciascuno per congiugnergli a sé.

Perché Cesare (Massimiliano d'Austria, N.d.E.) v'aveva insino da principio mandato tre oratori, uomini di grande autorità, a fare instanza che gli concedessino il passo per il territorio loro; anzi, non contento a questa dimanda, gl'invitava a fare seco più stretta congiunzione con patto che partecipassino de' premi della vittoria, e per contrario dimostrando essere in facoltà sua di concordarsi col re di Francia, con quelle condizioni a pregiudicio loro che tante volte in diversi tempi gli erano state proposte: da altra parte il re di Francia, con gli imbasciadori suoi appresso a quel senato e con lo imbasciadore viniziano che risedeva appresso a lui, non cessava di fare ogni opera per disporgli a opporsi con l'armi alla venuta di Cesare, come perniciosa a l'uno e l'altro, offerendo al medesimo tutte le forze sue e di conservare con loro perpetua confederazione.

Ma non piaceva al senato viniziano, in questo tempo, che la quiete d'Italia si perturbasse; né gli moveva a desiderare nuovi tumulti la speranza proposta della ampliazione dello imperio, avendo per la esperienza conosciuto che l'acquisto di Cremona non era contrapeso pari a' sospetti e pericoli ne' quali erano continuamente stati, poiché avevano avuto il re di Francia tanto vicino.

Volentieri si sarebbano risoluti alla neutralità, ma stretti e infestati da Cesare erano necessitati a negargli o concedergli il passo: negandolo temevano di essere i primi molestati, concedendolo offendevano il re di Francia, perché nella confederazione che era tra loro espressamente si proibiva il concedere passo agli inimici l'uno dell'altro; e conoscevano che, cominciando a offenderlo, sarebbe imprudenza, passato che fusse Massimiliano, stare oziosi a vedere l'esito della guerra, e aspettare la vittoria di coloro de' quali l'uno sarebbe inimicissimo al nome viniziano, l'altro, non avendo ricevuto altra sodisfazione che d'essere lasciato passare, non sarebbe loro molto amico.

Per le quali ragioni ciascuno di quel senato affermava essere necessario aderirsi scopertamente a una delle parti, ma a quale si avessino a aderire erano in causa tanto grave molto diverse le sentenze; e poiché ebbeno allungato il farne deliberazione quanto potevano, non si potendo più sostenere la instanza che ogni dì ne era loro fatta, ridottisi finalmente a farne nel consiglio de' pregati ultima determinazione, Niccolò Foscarini parlò in questa sentenza:".

Vedi il testo integrale dei discorsi di Niccolò Foscarini e Andrea Gritti al Senato Veneto.

dal Capitolo XI

Venezia respinge il tentativo di Massimiliano di invadere in armi il suolo italico

"... mille fanti tedeschi, i quali passorno all'improviso con grandissima celerità per monti e luoghi asprissimi del dominio viniziano, con intenzione di andare, passato il fiume del Po, per la montagna di Parma verso Genova; ma Ciamonte, sospettandone, mandò subito a Parma, per opporsi loro nel cammino, molti cavalli e fanti: per la venuta de' quali i tedeschi, perduta la speranza che contro a Genova potesse più succedere effetto alcuno, se ne ritornorono in Germania, per la medesima via ma non col medesimo timore e celerità, perché i viniziani, per beneficio comune, consentirono tacitamente il ritorno loro.".

dal Capitolo XII

L'avidità dissoluta dei monarchi causa prima delle guerre

"Massimiliano, che da Bolzano era andato a Brunech, voltatosi al cammino del Friuli, per la comodità de' passi e de' paesi più larghi, con seimila fanti comandati del paese, scorse per certe valli più di quaranta miglia dentro a' confini de' viniziani; e presa la valle di Codauro onde si va verso Trevigi, e lasciatosi addietro il castello di Bostauro che era già del patriarcato d'Aquilea, prese il castello di San Martino, il castel della Pieve e la valle Conelogo, dove erano a guardia i conti Savignani, e altri luoghi vicini: e fatto questo progresso, degno più tosto di piccolo capitano che di re, lasciato ordine che quelle genti andassino verso il trevigiano, si ritornò alla fine di febbraio a Spruch, per impegnare gioie e fare in altri modi provisione di danari; de' quali essendo più tosto dissipatore che spenditore, niuna quantità bastava a supplire a' bisogni suoi.".

Fedeltà del Cadore alla Repubblica di Venezia

"... l'Alviano si mosse per soccorrere il Friuli con grandissima celerità, e avendo passato le montagne cariche di neve si condusse in due dì presso a Cadoro; ove aspettati i fanti, che non avevano potuto pareggiare la sua celerità, occupò uno passo non guardato da' tedeschi donde si entra nella valle di Cadoro: per la venuta del quale preso animo gli uomini del paese, inclinati a stare sotto lo imperio viniziano, occuporono gli altri passi della valle onde i tedeschi arebbano avuto facoltà di ritirarsi.".

Libro VIII

dal Capitolo III

I Veneziani tentano di evitare i conflitti armati, ma il loro alleato Francese è di avviso contrario

"Però, seguitando come spesso si fà nelle opinioni contrarie, quella che è in mezzo, fu deliberato che l'esercito s'accostasse al fiume dell'Adda, per non lasciare in preda degli inimici la Ghiaradadda; ma con espressi ricordi e precetti del senato viniziano che, senza grande speranza o urgente necessità, non si venisse alle mani con gli inimici.
... Diversa era molto la deliberazione del re di Francia, ardente di desiderio che gli eserciti combattessino.".

dal Capitolo IV

Il re di Francia tradisce l'Alleanza e attacca Venezia alle spalle mentre questa combatte il nemico comune Massimiliano

"... l'araldo Mongioia, arrivato in Vinegia e introdotto innanzi al doge e al collegio, protestò in nome del re di Francia la guerra già cominciata, aggravandola con cagioni più efficaci che vere o giuste: alla proposta del quale, avendo alquanto consultato, fu risposto dal doge con brevissime parole che, poi che il re di Francia aveva deliberato di muovere loro la guerra nel tempo che più speravano di lui, per la confederazione la quale non aveano mai violata, e per aversi, per non si separare da lui, provocato inimico il re de' romani, che attenderebbeno a difendersi, sperando poterlo fare con le forze loro accompagnate dalla giustizia della causa.
Questa risposta parve più secondo la degnità della republica che distendersi in giustificazioni e querele vane contro a chi già gli avea assaltati con l'armi.
...".

Le monarchie scoprono il loro instabile complotto contro Venezia (Lega di Cambrai): la bolla di scomunica di Giulio II

"Fatto questo principio alla guerra, il pontefice incontinente publicò, sotto nome di monitorio, una bolla orribile; nella quale furno narrate tutte le usurpazioni che avevano fatte i viniziani delle terre pertinenti alla sedia apostolica, e l'autorità arrogatesi, in pregiudicio della libertà ecclesiastica e della giurisdizione de' pontefici, di conferire i vescovadi e molti altri benefici vacanti, di trattare ne' fori secolari le cause spirituali e l'altre attenenti al giudicio della Chiesa, e di molte altre cose, e tutte le inobbedienze passate.".

dal Capitolo V

Venezia, fino ad allora sempre vittoriosa, è in pericolo di annientamento

"Ma come a Vinegia pervenne la nuova di tanta calamità non si potrebbe immaginare non che scrivere quanto fusse il dolore e lo spavento universale, e quanto divenissino confusi e attoniti gli animi di tutti, insoliti a sentire avversità tali anzi assuefatti a riportare quasi sempre vittoria in tutte le guerre, e presentandosegli innanzi agli occhi la perdita dello imperio e il pericolo della ultima ruina della loro patria, in luogo di tanta gloria e grandezza con la quale da pochi mesi indietro si proponevano nell'animo l'imperio di tutta Italia. Però da ogni parte della città si concorreva con grandissimi gridi e miserabili lamenti al palagio publico: ...".

dal Capitolo VI

Vedendosi perduta, la Repubblica di Venezia libera le città alleate dall'obbligo di fedeltà in armi. Guicciardini vede questa azione nella luce di un abbandono, e forse non sbaglia.

"... questa ragione, che se volontariamente cedevano allo imperio per fuggire i presenti pericoli, che con più facilità, ritornando mai la prospera fortuna, lo ricupererebbeno; perché i popoli, licenziati spontaneamente da loro, non sarebbeno così renitenti a tornare sotto l'antico dominio come sarebbeno se se ne fussino partiti con aperta rebellione. Dalle quali ragioni mossi, dimenticata la generosità viniziana, e lo splendore di tanto gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l'acque salse, commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de' popoli se ne partissino.".

Vedi il Discorso di Antonio Giustiniano a Massimiliano, il monarca gozzovigliatore.

dal Capitolo VII

Guicciardini segnala un decadimento morale dei Veneziani, ma per i meriti passati ancora stima la loro Repubblica faro di civiltà nel Mondo

"In questo modo precipitavano con impeto grandissimo e quasi stupendo le cose della republica viniziana, calamità sopra a calamità continuamente accumulandosi, qualunque speranza si proponevano mancando, né indizio alcuno apparendo per il quale sperare potessino almeno conservare, dopo la perdita di tanto imperio, la propria libertà.
Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani, ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli offeriva l'occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il nome loro, odioso ancora più per la fama che risonava per tutto della alterezza naturale a quella nazione.
...

Da altra parte, molti considerando più sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitù de' forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta città, sedia sì inveterata di libertà, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva più freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il più glorioso membro, e quel che più che alcuno altro conservava la fama e l'estimazione comune.

...".

Treviso per gratitudine rifiuta di abbandonare la Repubblica di Venezia e di sottomettersi all'Imperatore austriaco

"... gli sbanditi di quella città stati nuovamente restituiti da' viniziani, e per questo beneficio amatori del nome loro, cominciorno a tumultuare; dietro a' quali sollevandosi la plebe affezionata allo imperio viniziano, e facendosene capo uno Marco calzolaio, il quale con concorso e grida immoderate della moltitudine portò in su la piazza principale la bandiera de' viniziani, cominciorono a chiamare unitamente il nome di san Marco, affermando non volere riconoscere né altro imperio né altro signore: ...".

"...".

Anche i popoli di Padova e Verona hanno nostalgia della Repubblica

"...congiunto lo sdegno dei privati con la utilità publica, e invitandogli il sapere Padova essere male provista di gente, e che, per le insolenze che i gentiluomini di Padova usavano con la plebe, molti ricordatisi della moderazione del governo viniziano cominciavano a desiderare il primo dominio, deliberorono fare esperienza di recuperarla; e a questo dava loro occasione non piccola che la più parte de' contadini del padovano era ancora a loro divozione.".

"...".

Massimiliano dalle gozzoviglie ai guai con le Popolazioni fedeli alla Repubblica che insorgono

"Non aveva insino a ora impedito né impediva Cesare in parte alcuna i progressi de' viniziani, non avendo avuto insieme forze bastanti ad alloggiare in sulla campagna, ed essendo stato occupato molti dì nella montagna di Vicenza, ove i villani affezionati al nome viniziano, confidatisi nella asprezza de' luoghi, se gli erano manifestamente ribellati; e scendendo dipoi nella pianura, essendo già seguita la rebellione di Padova, fu non senza suo pericolo assalito da numero infinito di paesani che l'aspettavano a uno passo forte: ...".

dal Capitolo X

Il Doge Leonardo Loredan esorta i Veneziani a difendere Padova

"Lionardo Loredano loro doge, uomo venerabile per l'età e per la degnità di tanto grado, nel quale era già seduto molti anni, levatosi in piedi parlò in questa sentenza:".

Vedi l'orazione di Leonardo Loredan per la difesa di Padova insorta contro Massimiliano.

I Veneziani rispondono con entusiasmo

"Fu udito con grandissima attenzione e approvazione, e messo con somma celerità in esecuzione, il consiglio del principe; per il quale il fiore de' nobili della gioventù viniziana, raccolti ciascuno quanti più amici e familiari atti allo esercizio dell'armi potette, andò a Padova, accompagnati insino che entrorno nelle barche da tutti gli altri gentiluomini e da moltitudine innumerabile, e celebrando ciascuno con somme laudi e con pietosi voti tanta prontezza in soccorso della patria: né con minore letizia e giubilo di tutti furono ricevuti in Padova, esaltando i capitani e i soldati insino al cielo che questi giovani nobili, non esperimentati né alle fatiche né a' pericoli della milizia, preponessino l'amore della patria alla vita propria; e in modo che confortando l'uno l'altro aspettavano con lietissimi animi la venuta di Cesare.".

dal Capitolo XI

Le ragioni dei Popoli nel desiderare il ritorno di Venezia

"Perché difendendo Padova poteva facilmente sperare quella republica, piena di grandissime ricchezze e unita con animi prontissimi in se medesima né sottoposta alle variazioni alle quali sono sottoposte le cose de' prìncipi, avere in tempo non molto lungo a recuperare grande parte del suo dominio; e tanto più che la maggiore parte di quegli che avevano desiderato le mutazioni, non vi avendo trovato dentro effetti corrispondenti a' suoi pensieri, e conoscendosi per la comparazione quanto fusse diverso il reggimento moderato de' viniziani da quello de' tedeschi alieno da' costumi degli italiani e disordinato maggiormente per le confusioni e danni della guerra, cominciavano a voltare gli occhi all'antico dominio: ...".

Le forze veneziane inviate alla difesa di Padova

"... diecimila fanti tra schiavoni greci e albanesi, tratti da le loro galee, ne' quali benché fusse molta turba inutile e quasi collettizia ve ne era pure qualche parte utile.
Oltre a questi, la gioventù viniziana con quegli che l'aveano seguitata; la quale benché fusse più chiara per la nobiltà e per la pietà verso la patria, nondimeno, per offerirsi prontamente a' pericoli e per l'esempio che faceva agli altri, non era di piccolo momento. ...".

Libro IX

dal Capitolo IX

Venezia alla riscossa deve suo malgrado acconsentire ai disegni guerrafondai del papa

"... pontefice; il quale, promettendosi più che mai la mutazione dello stato di Genova, deliberò di nuovo d'assaltarla. Però, avendo i viniziani, i quali più per necessità seguitavano che approvavano questi impetuosi movimenti, ...".

dal Capitolo XII

Metodi infami del papato. Nella "Storia d'Italia" non ho trovato riscontri per analoghe infamie commessa da Venezia; infamie per le quali, a detta dei calunniatori ottocenteschi e moderni, essa dovrebbe esser stata famosa

"... Ebbe nella fine di questo anno qualche infamia la persona del pontefice, come se fusse stato conscio e fautore che, per mezzo del cardinale de' Medici, si trattasse, con Marcantonio Colonna e alcuni giovani fiorentini, che fusse ammazzato in Firenze Piero Soderini gonfaloniere; ...".

Libro X

dal Capitolo III

Venezia ha resistito all'attacco dell'Imperatore d'Austria e al tradimento del re di Francia. Breve quiete prima della tempesta di Cambrai

"... con effetti leggieri e poco durabili, si terminorno la state presente i movimenti dell'armi; senza utilità ma non senza ignominia del nome di Cesare, e con accrescimento della riputazione de' viniziani, che assaltati già due anni dagli eserciti di Cesare e del re di Francia ritenessino alla fine le medesime forze e il medesimo dominio.".

dal Capitolo V

Elogio di un Ambasciatore veneziano

"... intervenuto continuamente a' trattamenti della lega. La quale come fu contratta, morì Ieronimo Donato oratore veneto, per la prudenza e desterità sua molto grato al pontefice, e perciò stato molto utile alla patria nella sua legazione.".

dal Capitolo X

I Veneziani riconquistano Brescia con l'appoggio delle Popolazioni

"... nel tempo medesimo, risonando per tutto il paese il nome di san Marco, il conte Luigi si accostò alla porta con ottocento uomini delle valli Eutropia e Sabia, le quali aveva sollevate, avendo mandato dalla altra parte della città insino alle porte il figliuolo con altri fanti.
... essendosi nel tempo medesimo approssimato a un miglio a Brescia il conte Luigi, con numero grandissimo d'uomini di quelle valli.
... invano resistendo i franzesi. I quali, veduto gli inimici entrare nella città e che in favore loro si movevano i bresciani, i quali prima, proibiti da loro di prendere l'armi, erano stati quieti, ...".

Discorso del comandante francese Fois riprendendo Brescia ai Veneziani e aprendo il saccheggio

"... la preda sarebbe senza comparazione molto maggiore che la fatica e il pericolo, avendo a combattere co' soldati viniziani manifestamente inferiori di numero e di virtù, perché della moltitudine del popolo inesperta alla guerra, e che già pensava più alla fuga che alla battaglia, non era da tenere conto alcuno; anzi si poteva sperare che cominciandosi per la viltà a disordinare sarebbono cagione che tutti gli altri si mettessino in disordine ...
... la roba e gli uomini rifuggitivi furno preda de' capitani. Fu il conte Luigi in sulla piazza publica decapitato, saziando Fois gli occhi propri del suo supplicio; i due figliuoli, benché allora si differisse il supplicio, patirono non molto poi la pena medesima. Così per le mani de' franzesi, da' quali si gloriavano i bresciani essere discesi, cadde in tanto sterminio quella città, ...
... essendo in preda le cose sacre e le profane, né meno la vita e l'onore delle persone che la roba, stette sette dì continui esposta alla avarizia alla libidine e alla licenza militare.".

dal Capitolo XIII

Discorso di Fois all'esercito per incitare al saccheggio dell'Italia fino a Roma

"... perché non solo Ravenna non solo tutte le terre di Romagna resteranno esposte alla vostra discrezione ma saranno parte minima de' premi del vostro valore; conciossiaché, non rimanendo più in Italia chi possa opporsi all'armi vostre, scorreremo senza resistenza alcuna insino a Roma; ove le ricchezze smisurate di quella scelerata corte, estratte per tanti secoli dalle viscere de' cristiani, saranno saccheggiate da voi: tanti ornamenti superbissimi tanti argenti tanto oro tante gioie tanti ricchissimi prigioni che tutto il mondo arà invidia alla sorte vostra. ...".

E poi fino a Napoli

"... condurrannogli alla campagna scoperta e piana: dove apparirà quello che l'impeto franzese la ferocia tedesca e la generosità degli italiani vaglia più che l'astuzia e gli inganni spagnuoli.
... certi che questo dì darà al mio re la signoria a voi le ricchezze di tutta Italia. Io vostro capitano sarò sempre in ogni luogo con voi ed esporrò, come sono solito, la vita mia a ogni pericolo; felicissimo più che mai fusse alcuno capitano poi che ho a fare, con la vittoria di questo dì, più gloriosi e più ricchi i miei soldati che mai, da trecento anni in qua, fussino soldati o esercito alcuno.".

Condottiero veneziano viene fatto Doge di Genova per volontà popolare

"Ianus Fregoso condottiere de' viniziani, andato a Genova con cavalli e fanti ottenuti da loro, fu causa che fuggendosene il governatore franzese quella città si ribellasse, ed egli fu creato doge, la quale degnità aveva già avuta... suo padre.".

Libro XI

dal Capitolo V

Venezia tutelatrice dell'Italia secondo il Papa

"... turbava tutte le cose la differenza tra Cesare e i viniziani. Affaticavasene quanto poteva il pontefice, ora confortandogli ora pregandogli ora minacciandogli; desideroso, come prima, per il bene publico di Italia, della conservazione de' viniziani, ..."

dal Capitolo XIV

Empietà dell'esercito papalino nell'assalto a Venezia, bombarda l'isola monastero di San Secondo e devasta la Terraferma

Da Bovolenta, invitandogli la cupidità del predare, e dando loro animo l'essere i fanti de' viniziani distribuiti alla guardia di Padova e di Trevigi, deliberò il viceré, benché contradicendo Prospero Colonna come cosa temeraria e pericolosa, approssimarsi a Vinegia.

"Però, passato il fiume del Bacchiglione e saccheggiata Pieve di Sacco, popoloso e abbondante castello, e dipoi andati a Mestri e di quivi condotti a Marghera in sull'acque salse, tirorno, acciocché fusse più chiara la memoria di questa spedizione, con dieci pezzi d'artiglieria grossa verso Vinegia; le palle dei quali pervennono insino al monasterio del tempio [di San] Secondo: e nel tempo medesimo predavano e guastavano tutto il paese, del quale erano fuggiti tutti gli abitatori; facendo iniquissimamente la guerra contro alle mura, perché, non contenti della preda grandissima degli animali e delle cose mobili, abbruciavano con somma crudeltà Mestri, Marghera e Leccia Fucina e tutte le terre e ville del paese, e oltre a quelle tutte le case che aveano più di ordinaria bellezza o apparenza: nelle quali cose non appariva minore la empietà de' soldati del pontefice e degli altri italiani, anzi tanto maggiore quanto era più dannabile a loro che a' barbari incrudelire contro alle magnificenze e ornamenti della patria comune.".

dal Capitolo XV

Venezia, pur assediata, continua a sostenere Treviso e Padova

"... Ma in Vinegia, vedendo il dì fummare e la notte ardere tutto il paese, per gli incendi delle ville e palagi loro e sentendo dentro alle case e abitazioni proprie i tuoni dell'artiglierie degli inimici, non piantate per altro che per fare più chiara la sua ignominia, erano concitati gli animi degli uomini a grandissima indegnazione e dolore; parendo a ciascuno acerbissimo oltre a misura che tanto fusse mutata la fortuna che, in cambio di tanta gloria e di tante vittorie ottenute per il passato, in Italia e fuori, per terra e per mare, vedessino al presente uno esercito, piccolo a comparazione dell'antiche forze e potenza loro, insultare sì ferocemente e contumeliosamente al nome di così gloriosa republica.
... E nondimeno i viniziani, afflitti da tanti mali e spaventati da accidente tanto contrario alle speranze loro, non mancavano di provedere quanto potevano a quelle città (Treviso e Padova): nelle quali, oltre agli altri provedimenti, mandorno, come erano consueti ne' pericoli più gravi, molti della gioventù nobile
.".

Libro XII

dal Capitolo V

Devastante incendio a Venezia

"... era stato in Vinegia, nel principio dell'anno, uno grandissimo incendio; il quale, cominciato di notte dal ponte del Rialto e aiutato da' venti boreali, non potendo rimediarvi alcuna diligenza o fatica degli uomini, distesosi per lunghissimo spazio, aveva abbruciato la più frequentata e la più ricca parte di quella città ...".

Provvedimenti veneziani per reprimere le scorrerie di mercenari austriaci nel Friuli

"... E accadevano spesso in Friuli queste variazioni per la vicinità de' tedeschi, i quali non si servivano in quel paese se non di genti comandate; le quali, poi che avevano corso e predato o sentendo la venuta delle genti viniziane, con le quali si congiugnevano molti del paese, si ritiravano presto alle loro case, ritornandovi dipoi secondo l'occasione.
Mandoronvi i viniziani gente di nuovo, per il che il viceré ordinò che Alarcone, uno de' capitani spagnuoli che erano alloggiati tra Esti, Montagnana e Cologna, andasse con dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e cinquecento fanti nel Friuli; ma, inteso per il cammino che nel paese era stata fatta tregua per fare la vendemmia, se ne tornò al primo alloggiamento.".

dal Capitolo VIII

Metodi infami delle monarchie coalizzate contro la Repubblica di Venezia

"Ma in questo medesimo non erano stati in Italia altri movimenti che contro a' viniziani. Contro a' quali anche si era tentato di procedere con occultissime insidie: perché, se è vero quello che riferiscono gli scrittori viniziani, alcuni fanti spagnuoli, entrati in Padova simulando di essere fuggiti del campo degli inimici, cercavano di ammazzare l'Alviano per commissione de' capitani loro;...
Tanto sono dissimili i modi della milizia presente dalla virtù degli antichi! i quali, non che subornassero i percussori, revelavano allo inimico se alcuna sceleratezza si trattava contro a lui, confidandosi di poterlo vincere con la virtù.".

dal Capitolo XV

I Veneziani in soccorso al re di Francia che assedia Milano (circa 1515)

"... E sopravenne, in sul levare del sole, l'Alviano; il quale, chiamato la notte dal re, messosi subito a cammino co' cavalli leggieri e con una parte più espedita dello esercito, e giunto quando era più stretto e più feroce il combattere e le cose ridotte in maggiore travaglio e pericolo, seguitandolo dietro di mano in mano il resto dello esercito, assaltò con grande impeto i svizzeri alle spalle.
I quali, benché continuamente combattessino con grandissima audacia e valore, nondimeno, vedendo sì gagliarda resistenza e sopragiugnere l'esercito viniziano, disperati potere ottenere la vittoria, essendo già stato più ore sopra la terra il sole, sonorono a raccolta; ...".

dal Capitolo XXII

Presa di Verona (1516)

"... Verona, consegnò a Lautrech quella città, riceventela in nome del re di Francia; e Lautrech, immediate, in nome del medesimo re, la consegnò al senato veneto, e per lui a Andrea Gritti proveditore; rallegrandosi sommamente la nobiltà e il popolo viniziano che di guerra sì lunga e sì pericolosa avessino, benché dopo infinite spese e travagli, avuto felice fine.
Perché, secondo che affermano alcuni scrittori delle cose loro, spesono in tutta la guerra fatta dopo la lega di Cambrai cinque milioni di ducati; de' quali ne estrassono, della vendita degli offici, cinquecentomila.
Ma non meno si rallegravano i veronesi e tutte l'altre città e popoli sottoposti alla loro republica; perché speravano, riposandosi per beneficio della pace, aversi a liberare da tante vessazioni e tanti mali, che così miserabilmente avevano, ora da una parte ora dall'altra, tanto tempo sopportati.".

Libro XIV

dal Capitolo X

Parma, Guicciardini in armi assediato da Veneziani e Francesi

"... propinqua a Parma a dodici miglia; con ordine che Marcantonio Colonna, con le fanterie viniziane le quali erano alloggiate in su Oglio, le seguitasse: il che avendo presentito la notte medesima Francesco Guicciardini, il quale era andato da Milano per commissione del cardinale de' Medici alla custodia di Parma, convocato la notte il popolo e confortatolo alla difensione di loro medesimi, e distribuite in loro mille picche, che due dì innanzi, sospettando de' casi che potessino accadere, aveva fatto condurre da Reggio, attendeva sollecitamente a fare le provisioni necessarie per difendersi.
... non solo nella moltitudine per tutte le contrade, ma nel consiglio loro e in quegli magistrati che avevano la cura delle cose della comunità, si cominciò apertamente a pregare il governatore (F.G.) che, per liberare sé e i soldati suoi dal pericolo di restare prigione e la città dal pericolo di essere saccheggiata, consentisse che si accordassino: a che resistendo il governatore con le ragioni e co' prieghi, e consumandosi il tempo in dispute, si accrebbe nuova difficoltà, ...".

Guicciardini governatore di Parma assediata, nonostante sia in quei giorni morto il Papa, difende i propri giuramenti da chi, fra i suoi, vorrebbe cedere le armi e la piazza di Parma agli assedianti.

"... con apertissima instanza ma eziandio con protesti e quasi con tacite minaccie, a strignerlo che consentisse allo accordo.
A' quali avendo risposto risolutamente che, poi che non era in potestà sua proibire loro questi ragionamenti e questi pensieri, come farebbe se avesse in Parma maggiori forze, non gli restava altra sodisfazione della ingiuria che trattavano di fare alla sedia apostolica e a sé, ministro di quella, che vedere che se si risolvevano ad accordarsi non potevano fuggire la infamia di essere rebelli e mancatori di fede al loro signore; esprobrando con caldissime parole il giuramento della fedeltà che, pochi dì innanzi, avevano nella chiesa maggiore prestato solennemente in sua mano alla sedia apostolica; e che, quando bene vedesse innanzi agli occhi la morte manifestissima da loro, tenessino per certo che da lui mai arebbono altra conclusione se non quando, per sopravenire nuove genti o artiglierie grosse nel campo degli inimici o per altro accidente, conoscesse essere maggiore il pericolo del perdersi che la speranza del difendersi.".

E obbliga i Veneziani e Federigo da Bozzole alla ritirata

"... vedendo quegli della terra succedere la difesa felicemente, preso ardire, concorrevano di mano in mano prontamente alla muraglia, non mancando il commissario di fare sollecitamente per tutto le necessarie provisioni: talmente che, innanzi cessasse la battaglia, non solo era concorso tutto il popolo e i religiosi ancora a combattere alla muraglia, ma eziandio moltissime donne attendendo a portare vino e altri rinfrescamenti agli uomini suoi.
In modo che quegli di fuora, disperati della vittoria, e ritiratisi con perdita e ferite di molti di loro nel Codiponte, la mattina seguente si levorono; ...".

Attestazione di stima da parte di Federigo da Bozzole, sconfitto, a Guicciardini vincitore

"... asserendo Federigo, nessuna cosa in questa espedizione, della quale era stato autore, averlo ingannato se non il non avere creduto che uno governatore, non uomo di guerra e venuto nuovamente in quella città, avesse, essendo morto il pontefice, voluto più presto, senza alcuna speranza di profitto, esporsi al pericolo che cercare di salvarsi, potendo farlo senza suo disonore o infamia alcuna.".

Libro XV

dal Capitolo I

Le manovre diplomatico-militari a cui Venezia sempre più si dedica, per tenere la guerra guerreggiata lontana dai suoi Territori, sortiscono buon effetto ma sguarniscono lo Stato da Mar con grave pregiudizio del futuro della Repubblica. Rodi, roccaforte Jerosolimitana, cade sotto l'attacco degli Ottomani

"Solimanno, in maggiore dispregio della cristiana religione, fece l'entrata sua in quella città il giorno della natività del Figliuolo di Dio; nel quale dì, celebrato con infiniti canti e musiche nelle chiese de' cristiani, egli fece convertire tutte le chiese di Rodi, dedicate al culto di Cristo, in moschee; che secondo l'uso loro, esterminati tutti i riti de' cristiani, furono dedicate al culto di Maometto.
Questo fine ignominioso al nome cristiano, questo frutto delle discordie de' nostri prìncipi, ebbe l'anno mille cinquecento ventidue, tollerabile se almanco l'esempio del danno passato avesse dato documento per il tempo futuro.
Ma continuandosi le discordie tra i prìncipi, non furono minori i travagli dell'anno mille cinquecento ventitré.".

dal Capitolo II

I Veneziani tornano d'attualità in diplomazia, questo secondo capitolo è dedicato a loro quasi per intero, ma si percepisce la delusione del Guicciardini nel vedere il glorioso Senato, già sotto la nefasta influenza del Gritti, non disputare più sull'onore e la fedeltà nelle alleanze, quanto su calcoli di interesse immediato

Vedi il discorso di Andrea Gritti e la risposta di Giorgio Cornaro in Senato Veneto.

Libro XVI

dal Capitolo I

Guicciardini testimonia ancora il decadimento dei Veneziani dalla loro passata moralità

"... Né erano travagliati da questo timore solamente quegli di autorità e forze minori ma, quasi più che gli altri, il pontefice e i viniziani: questi, non solo per la coscienza di essergli mancati, senza giusta causa, ai capitoli della loro confederazione ma molto più per la memoria degli antichi odii e delle spesse ingiurie state tra loro e la casa d'Austria e delle gravi guerre avute, pochi anni innanzi, con l'avolo suo Massimiliano, ...".

Venezia resta tuttavia la massima potenza italica

"... e per conoscere che ciascuno che avesse in animo di stabilire grandezza in Italia era necessitato a pensare di battere la potenza loro, troppo eminente: ...".

Ma lo fama dei governanti veneziani è sempre peggiore. Ora non esitano a invocare anch'essi bande mercenarie sul suolo italico, purché lontane dai loro propri Territori

"... gli sopravenneno (al papa) i conforti e offerte de' viniziani: i quali, costituiti nel medesimo timore di se medesimi, con efficacissima instanza si sforzavano persuadergli che, congiunti insieme, facessino calare subito in Italia diecimila svizzeri, e soldato una grossa banda di genti italiane si opponessino a così gravi pericoli; promettendo, come è costume loro, di fare per la loro parte molto più che poi non sogliono osservare.".

dal Capitolo VII

L'opportunità si sostituisce sempre più alla lealtà nelle decisioni del Senato Veneto

"Trattavasi in questo tempo continuamente l'accordo tra i viniziani e il viceré; il quale, oltre al riobligargli alla difesa in futuro del ducato di Milano, dimandava, per sodisfazione della inosservanza della confederazione passata, grossissima somma di danari.

Molte erano le ragioni che inclinavano i viniziani a cedere alla necessità, molte che incontrario gli confortavano a stare sospesi; in modo che i consigli loro erano pieni di varietà e di irresoluzione: pure, alla fine, dopo molte dispute, attoniti come gli altri per tanta vittoria di Cesare e vedendosi restare soli da ogni banda, commessono all'oratore suo Pietro da Pesero, che era appresso al viceré, che riconfermasse la lega nel modo che era stata fatta prima ma pagando a Cesare, per sodisfazione del passato, ottantamila ducati.

Ma instando determinatamente il viceré di non rinnovare la confederazione se non ne pagavano centomila, accadde, come interviene spesso nelle cose che si deliberano male volontieri, che in disputare questa piccola somma si interpose tanto tempo che a' viniziani pervenne la notizia che il re d'Inghilterra non era più contro a' franzesi in quella caldezza di che da principio si era temuto; e già, per avere ricevuto i pagamenti, erano stati licenziati tanti fanti tedeschi dell'esercito imperiale che il senato viniziano, assicurato di non avere per allora a essere molestato, deliberò di stare ancora sospeso, e riservare in sé, più che poteva, la facoltà di pigliare quelle deliberazioni che per il progresso delle cose universali potessino conoscere essere migliori.

dal Capitolo VIII

Il Senato Veneto, sempre più lontano dala gloria repubblicana dei Padri, cede ai sistemi delle monarchie e si mostra incline ad aderire alla congiura di Jeronimo Morone, gran cancelliere del Duca di Milano, per assassinare l'Imperatore

"Autore di questo consiglio fu Ieronimo Morone, suo gran cancelliere e appresso a lui di somma autorità; il quale, per ingegno eloquenza prontezza invenzione ed esperienza, e per avere fatto molte volte egregia resistenza alla acerbità della fortuna, fu uomo a' tempi nostri memorabile; e sarebbe ancora stato più se queste doti fussino state accompagnate da animo più sincero e amatore dello onesto, e da tale maturità di giudizio che i consigli suoi non fussino spesso stati più presto precipitosi o impudenti che onesti o circospetti.

Costui, odorando la mente del marchese, si condusse co' ragionamenti seco tanto innanzi che venneno in parole di tagliare a pezzi quelle genti e di fare il marchese re di Napoli, pure che il pontefice e i viniziani vi concorressino.
Al quale consiglio il pontefice, essendo pieno di sospetto e di ansietà, tentato per ordine del Morone, non si mostrò punto alieno; ...
Mostroronsi i viniziani caldissimi: e si persuadevano anche tutti che v'avesse a essere non manco pronta la madre del re di Francia; la quale già si accorgeva che, arrivato il figliuolo in Spagna, la sua liberazione non procedeva con quella facilità che si erano immaginati.".

dal Capitolo X

La congiura non viene attuata; Venezia tratta con l'Imperatore per impedire che questi si insignorisca anche del Ducato di Milano e compra la propria neutralità con danaro.

"... Difficultò questa innovazione la speranza della concordia la quale si trattava per il protonotario Caracciolo col senato viniziano, ridotta già in termini che pareva propinqua alla conclusione, di rinnovare la prima confederazione con le medesime condizioni e di pagare a Cesare, per ricompensazione della omissione del passato, ottantamila ducati ...".

Libro XVII

dal Capitolo II

Le manovre diplomatiche dei Veneziani li tengono provvisoriamente a margine dello sbranarsi tra monarchi europei

"... Solamente faceva scrupolo in contrario (al Pontefice e ai Veneziani) il timore che il re, per il rispetto de' figliuoli non abbandonasse gli altri collegati, come si era dubitato non facesse il governo di Francia quando il re era prigione.

Pure il caso si riputava diverso: perché, pigliando l'armi contro a Cesare con tante occasioni, pareva che sì grande fusse la speranza di ricuperargli con le forze, e con questo avesse a succedere con tanta sua riputazione, che e' non avesse causa di prestare orecchi a concordia particolare, la quale succederebbe non solo con ignominia sua ma eziandio con pregiudicio proprio, se non presente almeno futuro; perché il permettere che Cesare riducesse Italia ad arbitrio suo non poteva, alla fine, essere se non molto pericoloso al reame di Francia.

Dalla quale ragione si inferiva similmente che avesse a esercitare ardentissimamente la guerra: perché pareva inutilissimo consiglio, confederandosi contro a Cesare, privarsi della recuperazione de' figliuoli con l'osservanza della concordia; e nondimeno, da altra parte, pretermettere quelle cose per le quali poteva sperare di conseguirgli gloriosamente con l'armi.".

Venezia in Lega con la Francia e il Papa contro l'Imperatore

"... le pratiche della lega. La quale il decimosettimo dì di maggio dell'anno millecinquecentoventisei si conchiuse, in Cugnach, tra gli uomini del consiglio procuratori del re da una parte, e gli agenti del pontefice e de viniziani dall'altra, in questa sentenza: che tra il pontefice il re di Francia i viniziani e il duca di Milano (per il quale il pontefice e i viniziani promesseno la ratificazione) fusse perpetua lega e confederazione, a effetto di fare lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza e di ridurre in libertà i figliuoli del re: che a Cesare si intimasse la lega fatta, e fusse in facoltà sua di entrarvi in termine di tre mesi, restituendo i figliuoli al re, ricevuta per la liberazione loro una taglia onesta che avesse a essere dichiarata dal re di Inghilterra, e rilasciando anche il ducato di Milano interamente a Francesco Sforza, e gli altri stati di Italia nel grado che erano innanzi si cominciasse l'ultima guerra: ...".

dal Capitolo III

Firenze membro occulto della Lega con Guicciardini al comando come plenipotenziario del Papa

"... E però il pontefice, il quale prima aveva mandato a Piacenza con le sue genti d'arme e con cinquemila fanti il conte Guido Rangone ... vi mandò di nuovo con altri fanti e con le genti d'arme de' fiorentini Vitello Vitelli, che ne era governatore, e Giovanni de' Medici, quale fece capitano generale della fanteria italiana; e per luogotenente suo generale nello esercito e in tutto lo stato della Chiesa, con pienissima e quasi assoluta potestà, Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna.

E i viniziani da altra parte augumentorno l'esercito loro, del quale era capitano generale il duca d'Urbino e proveditore Pietro da Pesero, fermandolo a Chiari in bresciano, con commissione che l'uno e l'altro esercito procedesse al danno de' cesarei senza rispetto o dilazione alcuna.".

dal Capitolo V

Il Duca di Urbino, Capitano dei Veneziani, capo di Stato Maggiore della Lega grazie al carisma della Repubblica

"... Dependevano principalmente questa e l'altre deliberazioni dal duca di Urbino; perché, se bene fusse solamente capitano de' viniziani, gli ecclesiastici, per fuggire le contenzioni e perché altrimenti non si poteva fare, aveano deliberato di riferirsi a lui come a capitano universale.".

dal Capitolo VI

Il Guicciardini contesta la decisione del Duca di Urbino di ritirare l'Esercito dall'assedio di Milano

"... Rispose il luogotenente che, benché ciascuno pensasse le deliberazioni sue essere fatte con somma prudenza, nondimeno che nessuno di quegli capitani conosceva cagione che necessitasse a levarsi con tanta prestezza; e ridurgli in memoria quel che, veduta la ritirata loro, farebbe il duca di Milano disperato di essere soccorso; quanto animo perderebbeno il pontefice e i viniziani, e le imaginazioni che per la declinazione delle imprese, massime ne' princìpi, sogliono nascere nelle menti de' prìncipi; ...".

Guicciardini obbbedisce. Tuttavia il suo giudizio è un esplicito sospetto di tradimento da parte del Duca di Urbino ma non dei Veneziani

"... E a giudizio della maggiore parte degli uomini ebbe sì poca necessità il pigliare uno partito di tanta ignominia che molti dubitassino che il duca non fusse stato mosso da ordinazione occulta del senato viniziano, il quale, a qualche proposito incognito agli altri, desiderasse la lunghezza della guerra; altri dubitassino che il duca, ritenendo alla memoria le ingiurie ricevute da Lione e dal presente pontefice quando era cardinale, e temendo che la grandezza sua non gli mettesse in pericolo lo stato, non gli fusse o per odio o per timore grata la vittoria sì presta della guerra; ...
... Nondimeno, il luogotenente del pontefice (Guicciardini stesso) si certificò per mezzi indubitatissimi che a' viniziani fu molestissima la ritirata, e che non avevano cessato mai di sollecitare lo accostarsi lo esercito a Milano sperando molto nella facilità della vittoria; ...".

dal Capitolo IX

Mentre gli Europei si azzuffano per il Ducato di Milano, i Turchi ingoiano i Balcani e l'Ungheria Cristiana

"... E ne' medesimi dì il pontefice, acciò che alle afflizioni particolari si aggiugnessino le calamità della republica cristiana, ebbe avvisi di Ungheria, Solimanno ottomanno, il quale si era mosso di Costantinopoli con potentissimo esercito per andare ad assaltare quel reame, poiché aveva passato il fiume del Savo senza contrasto (perché pochi anni innanzi aveva espugnato Belgrado), avere ora espugnato il castello, credo, di Pietro Varadino passato il fiume della Drava: donde, non gli ostando né monti né impedimenti de' fiumi, si conosceva tutta l'Ungheria essere in manifestissimo pericolo. ...
... acciò che alla afflizione che aveva per le cose proprie si aggiugnesse anche l'afflizione per le cose publiche, sopravenneno nuove che Solimanno ottomanno principe de' turchi aveva rotto in battaglia ordinata Lodovico re di Ungheria, conseguendo la vittoria non manco per la temerità degli inimici che per le forze sue; ...".

dal Capitolo XIII

Pentimenti sospetti del Papa per l'avanzata dei Turchi mentre Roma è messa a sacco dagli imperiali dei Colonna

"... Però, rivolgendo nella mente sua nuovi pensieri, e dimostrando ne' gesti nelle parole e nella effigie del volto smisurato dolore, chiamati i cardinali in concistorio, si lamentò efficacissimamente con loro di tanto danno e ignominia della republica cristiana; ...
Essere stata, per la difesa di quel regno e per il pericolo del resto de' cristiani, molto incomoda e importuna la guerra presente, e averlo egli detto e conosciuto insino da principio; ma la necessità averlo indotto ... a pigliare l'armi, contro a quello che sempre era stata sua intenzione: ... le condizioni della lega che aveva fatta, risguardanti tutte al benefizio comune, dimostrare a bastanza non lo avere mosso alcuna considerazione degli interessi propri e particolari suoi e della sua casa. ... in tempo che tutti gli altri membri di questo corpo erano distratti da altri pensieri che da quello della salute comune, credere la volontà sua essere che per altra via si cercasse di sanare sì grave infermità.

E però, toccando questa cura più allo offizio suo pastorale che ad alcuno altro, avere disposto, ... procurata il più presto potesse e con qualunque condizione una sospensione dell'armi in Italia, salire in su l'armata e andare personalmente a trovare i prìncipi cristiani, per ottenere da loro, con persuasioni con prieghi con lagrime, la pace universale de' cristiani. ... perché nissuna infelicità nissuna miseria gli potrebbe essere maggiore che perdere la speranza e la facoltà di potere porgere la mano salutare in incendio tanto pernicioso e tanto pestifero.

Fu udita con grande attenzione ed eziandio con non minore compassione la proposta del pontefice, e commendata molto; ma sarebbe stata commendata anche molto più se le parole sue avessino avuta tanta fede quanta in sé avevano degnità; perché la maggiore parte de' cardinali interpretava che, avendo prese l'armi contro a Cesare nel tempo che già, per le preparazioni palesi de' turchi, era imminente e manifesto il pericolo dell'Ungheria, lo commovesse più la difficoltà nella quale era ridotta la guerra che il pericolo di quel reame: di che non si potette fare vera esperienza.".

Libro XVIII

dal Capitolo I

Amare riflessioni del Guicciardini per il continuare della gazzarra fra i "Cristiani"

"Sarà l'anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di prìncipi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga e di rapine. Alle quali calamità nessuna difficoltà ritardava a dare il principio che le difficoltà che aveva il duca di Borbone di potere muovere di Milano i fanti spagnuoli.".

dal Capitolo III

Venezia complice dell' imperialismo militare pontificio contro Napoli

"... che Renzo nello Abruzzi e l'armata della Chiesa e de' viniziani, che erano ventidue galee, non arebbeno contrasto, portando massime tremila fanti di sopracollo, e andandovi Orazio con dumila fanti e la persona di Valdemonte, al quale il pontefice aveva dato titolo di suo luogotenente ...".

l'impresa si sfalda

"... Renzo, a' sei di marzo, preso Siciliano e Tagliacozzo, andava verso Sora. E nondimeno, in tanta occasione, l'esercito terrestre, ridotto o per la negligenza de' ministri o per le male provisioni del pontefice in carestia grande di vettovaglie, aveva il quinto dì di marzo cominciato a sfilarsi.".

dal Capitolo IV

Pensieri del Duca di Urbino, Capitano dei Veneziani, per la tutela della neutralità territoriale veneziana

"... anche avere a considerare, poi che i viniziani avevano rimessa in lui liberamente questa deliberazione, di non lasciare lo stato loro in pericolo ...
Con la quale ragione convinceva il senato viniziano, che per natura ha per obietto di procedere nelle cose sue cautamente e sicuramente; ma non sodisfaceva già al pontefice, considerando che con questo consiglio si apriva la via allo esercito imperiale di andare insino a Roma o in Toscana, ...".

dal Capitolo VIII

Venezia conditio sine qua non della strategia europea

"... il re di Francia esausto di danari, e intento più a straccare Cesare con la lunghezza della guerra che alla vittoria, giudicava bastare ora che la guerra si nutrisse con piccola spesa; anzi, se bene nel principio, quando intese la tregua fatta dal pontefice, gli fusse molestissima, nondimeno, considerando poi meglio lo stato delle cose, desiderava che il pontefice disponesse i viniziani, senza i quali egli non voleva fare convenzione alcuna, ad accettare la tregua fatta.".

dal Capitolo XVIII

Venezia ricerca il controllo dei porti

"... Erasi in questo tempo Monopoli arrenduto a' viniziani, per i quali, secondo l'ultime convenzioni fatte col re di Francia, si acquistavano tutti quegli porti del regno di Napoli i quali possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal re Luigi nella Ghiaradadda.".

Libro XIX

dal Capitolo XVI

La diplomazia veneta consegna le terre annesse e conquistate in cambio della tranquillità dei precedenti confini

"... Per la esecuzione de' quali accordi, Cesare restituì a Francesco Sforza Milano e tutto il ducato, e ne rimosse tutti i soldati; ritenendosi solamente quegli che erano necessari per la guardia del castello e di Como; i quali restituì poi al tempo convenuto. E i viniziani restituirono al pontefice le terre di Romagna, e a Cesare le terre tenevano nella Puglia.".

Libro XX

dal Capitolo III

Trame del re di Francia con i Turchi. Questa è un'altra delle infamie francesi che Pierre Daru scaricò su Venezia nella sua Histoire de la Republique de Venise.

"... Finì in queste agitazioni l'anno mille cinquecento trenta e succedette il mille cinquecento trentuno, ...
... e (quello che si trattava con maggiore offesa di Dio e con orribile infamia della corona di Francia, che aveva fatto sempre precipua professione di difendere la religione cristiana, per i quali meriti aveva conseguitato il titolo del cristianissimo) tenendo pratiche col principe de' turchi per irritarlo contro a Cesare, contro al quale era per l'ordinario mal disposto, sì per l'odio naturale contro al nome de' cristiani come per cagione delle controversie che aveva col fratello, che erano quistioni per il regno d'Ungheria col vaivoda di chi egli aveva preso la protezione, come eziandio perché la grandezza di Cesare cominciava a essere sospetta anche a lui.".

dal Capitolo V

Lo Stato da Mar è sempre più debole e i Turchi fanno la voce sempre più grossa

"Non ebbe questo anno trentuno altri accidenti; e si andò continuando anche la quiete nel futuro anno, il quale fu più pericoloso per guerre esterne che per movimenti di Italia.
Perché il turco, acceso dall'ignominia della ributtata di Vienna e inteso Cesare essere in Germania, preparò grossissimo esercito, magnificando gli apparati con publicare di volere fare la guerra per costrignere Cesare a fare giornata seco: per la fama delle quali preparazioni e Cesare si messe in ordine quanto poteva, ...".

dal Capitolo VI

Guicciardini ancora nell'occhio del ciclone fra il Pontefice e i Veneziani

"Trattossi di queste materie, principalmente quella della confederazione; alla quale pratica, di più mesi, furono diputati, per la parte di Cesare, Cuovos comandatore maggiore di Leone, Granvela e Prata, suoi principali consiglieri, e per la parte del papa il cardinale de' Medici, Iacopo Salviati e il Guicciardino: ...".

dal Capitolo VII

La frase conclusiva dell'opera è un sunto della personalità e dell'etica di Guicciardini, oltre che uno dei principi fondanti la Repubblica

"Perché è verissimo e degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto il valore di chi lo esercita.".

   

Note

Nota 1- Questo assioma deve la sua forma attuale a Cicerone, che nel "De Oratore" così descrive la Storia: "La Storia è fedele testimone del tempo, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell'Antico, ..." (Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?). Il valore della conoscenza per il Buon Governo dei Popoli è però un concetto che precede l'epoca Romana e si può facilmente riscontrare già nell'Antico Egitto e nelle Civiltà Mesopotamiche.

Nota 2-L'Onore, per Guicciardini come per tutti i pensatori civili, consiste nella pratica delle virtù sociali, quali la lealtà, la fedeltà alla parola data, la congruenza nelle proprie scelte, la coerenza fra predicato e praticato, la dedizione al Bene Comune prima che a quello privato.

Nota 3- Intendo qui il patriottismo non soltanto dei Veneziani, ma di tutti i Popoli europei, che hanno avuto mille anni della loro Storia falsificati da un arrivista francese di grande successo, Pierre Daru. Costui, con le fosche menzogne della sua "Histoire de la Republique de Venise" in sette volumi, costrinse la "critica allineata" dei regimi successivi ad ampliare l'area della calunnia o cancellazione a tutte le fonti attendibili, come quella costituita dal Guicciardini, giustamente glorioso come Padre della Storiografia moderna.

Nota 4- Il disinteresse per l'onore dei monarchi dinastici trova spiegazione nelle descrizioni che di loro leggiamo in Guicciardini. Il monarca si sente infatti privo di suoi pari davanti ai quali garantire di sé con l'onore. Egli nulla sente di dovere al Popolo, che non lo ha eletto ma al quale si impone per generazioni, il più delle volte con la brutalità della violenza e dell'intrigo.
In tutta evidenza nulla ritiene di dovere anche a Dio, trovandosi Egli ridotto, nella mente fosca del monarca, alla miserabile stregua del proprio ego personale smodatamente viziato.

Nota 5- Francesco Guicciardini nasce nel 1483 e muore nel 1540. La data di nascita di Tiziano Vecellio non è altrettanto certa, e si colloca fra il 1477 1 il 1490, con una maggior propensione fra gli storici di fissarla attorno al 1488. Analoga incertezza per la morte, che comunque si colloca vicino al 1576.


Edizione HTML e selezione delle citazioni a cura di Umberto Sartori